Soldato nel Donbas, Foto di LaPresse 

Un foglio internazionale

Nel Donbas, alcuni soldati ucraini stremati raccontano il loro inferno

Gli attacchi russi incessanti, le difficoltà delle comunicazioni, la penuria di armi moderne, i blindati che saltano vicino a Bakhmut. L'articolo del Figaro

Sono un piccolo gruppo, quattro uomini, seduti senza scambiarsi molte parole dentro a uno dei rari bar ancora aperti di Kramatorsk, racconta il reportage del Figaro. Il luogo non è molto gioioso, ma è aperto e serve un po’ di alcol, cosa ormai totalmente vietata in questa città così come in tutta la parte del Donbas controllata dall’Ucraina. Gli abiti civili non bastano a nascondere i pezzi di uniforme e l’aria da soldati. Hanno il volto segnato dalla fatica. Lentamente, in piedi, alzano al cielo dei piccoli bicchieri di vodka, nel ricordo dei loro amici morti al fronte. “Siamo appena rientrati da due settimane di combattimenti. Un inferno”, dice Yuri.

 

Questi soldati ucraini non sono autorizzati a parlare, per questo non dicono né il loro nome preciso né il luogo esatto in cui hanno combattuto. “È un piccolo ponte a sud di Bakhmut a cui nessuno prestava attenzione prima”, dettaglia il sergente capo Alexii. Questo giovane di trent’anni con la barba fitta e le “sue sezioni”, un centinaio di uomini in totale, si sono insediati laggiù ai primi di agosto. “Siamo la seconda compagnia di fanteria leggera”, si accontenta di dire Alexii. La sua posizione, su “una piccola altura”, uno dei rari rilievi che si possono trovare sulla piana disperatamente piatta attorno alla regione di Donetsk, non offre molta protezione.

 

Sono state scavate delle trincee e creati due piccoli bunker. “Ci aiutano a proteggerci un po’, ma gli attacchi dei russi sono incessanti. Ci scagliavano contro tutto ciò che avevano, mortaio da 120 mm, ma anche l’artiglieria, i razzi Grad e persino l’aviazione”, racconta il sottufficiale con gli stessi toni del sergente capo. Solo il suo lembo di terra poteva essere colpito “40-60 volte al giorno”. La terza sezione, posizionata “un po’ più a nord delle mie”, è particolarmente colpita (…).
Le notti sono ancora peggio. I bombardamenti sono regolari. Una sera, Alexii ha persino dovuto subire lo choc delle bombe al fosforo bianco. “Non sapevamo cosa fossero. Sembravano fuochi d’artificio”. Le bombe hanno fallito il loro obiettivo, non hanno causato nessuna perdita. “I russi tentavano di infiltrarsi e di mettere dei cecchini. Ma non ci sono riusciti”.

 

Secondo lui, la strategia russa è sempre la stessa, semplice e brutale. “Prima sparano colpi d’artiglieria, poi lanciano un assalto frontale a piedi. Ma li abbiamo sempre respinti”, afferma. “Le loro perdite sono certamente molto pesanti”, immagina Alexii, senza dispiacersene. Yuri che non ha ancora voltato la pagina dei suoi vent’anni, e ha alcuni tatuaggi sul braccio e sul corpo, narra con una voce agitata le sue ultime settimane. “Restiamo costantemente nella stessa posizione. Con gli occhi aperti. Perché ci sono i bombardamenti, gli assalti e poi i droni”.

 

I loro dispositivi, spesso dei “dispositivi civili offerti dal popolo ucraino”, ma anche degli “Orlan-10”, droni militari russi rudimentali. “Il problema è che non si può sapere se sono droni amici o nemici. Ciò ci rendeva talmente nervosi che a un certo punto volevamo abbatterli tutti senza cercare di capire se fossero russi o ucraini”. I nervi cedono anche in ragione dell’isolamento, poiché le comunicazioni con il pc, persino con le unità vicine, sono complicate. “Le radio funzionano bene ma hanno una portata limitata. Il risultato, nel giro di una settimana, è che non sappiamo più nulla di ciò che accade a più di due chilometri”, deplora Yuri.

 

Per rispondere ed allontanare il più possibile il pericolo, l’artiglieria ucraina contrattacca. “Ma molto meno che i russi. Forse una decina di colpi al giorno”. In questo angolo del Donbas, l’utilizzo del materiale bellico consegnato dagli Stati Uniti o dall’Europa, gli obici Cesar, gli M-777 o i lanciarazzi Himars sono ancora promesse lontane. “Gli obici M-777, io non li ho ancora visti. In compenso, ho visto dei 200 e dei 300”, si lamenta Yuri, utilizzando lo slang dell’esercito sovietico che, al culmine dei combattimenti afghani, designava i trasporti funebri con la cifra “200” e le ambulanze che trasportavano i feriti con la cifra “300”. Le perdite sono pesanti. Più di settanta feriti in occasione di questa rotazione, e “una ventina di morti”, tra cui due dei loro amici, nel ricordo dei quali ora brindano. 

 

“Sono andati in ricognizione in un blindato Brdm e sono stati colpiti da un lanciarazzi Rpg. È esploso tutto in aria”, racconta il sergente capo Alexii. Il Brdm, veicolo di trasporto russo degli anni Sessanta, è secondo lui “di scarsissima qualità”. “Con delle munizioni adeguate, si può perforare la sua blindatura con un semplice kalashnikov”, assicura il sergente capo. Lui e i suoi uomini non ci entrano mai quando si spostano. “È meglio restare sopra. In caso di attacco, quantomeno, avete una possibilità di sopravvivere”.

 

Traduzione di Mauro Zanon

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