La fila per votare in un seggio di Mosul (foto LaPresse)

Cos'è venuto di buono dalla guerra in Iraq

E’ l’unico paese arabo in cui si vota. Scusate, non è poco

Il dibattito sulle conseguenze della guerra in Iraq (che vede critici come il presidente Trump opporsi a fautori come il nuovo consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton) è stato drammatico sin da quando il conflitto iniziò quindici anni fa”. Così sul Wall Street Journal Karl Zinsmeister, ex giornalista ‘embedded’ in Iraq nonché capo consigliere per la politica estera della Casa Bianca sotto Bush figlio. “Allora, chi era a favore della guerra la descriveva in termini utopici, come quando il presidente George W. Bush assicurò gli americani che avrebbe costituito ‘uno spartiacque nella rivoluzione democratica globale’.

 

 

I suoi critici, in America come all’estero, erano altrettanto veementi nel loro pessimismo. La realtà di oggi è in un certo senso una via di mezzo. Tuttavia è sorprendente notare (dato il numero di golpe subiti dall’Iraq, che per gran parte del Ventesimo secolo ne hanno fatto uno dei posti peggio governati al mondo) che sembra che il paese stia costruendo una democrazia resiliente. Ci sono un paio di misure di progresso sociale che dimostrano il significativo miglioramento della società irachena. Iniziamo dal reddito nazionale, un fattore che generalmente determina se altre cose positive possano accadere all’interno di una nazione. Stando alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale, il pil iracheno nel 2017 era il 51 per cento più alto che nel 2002, l’anno precedente all’arrivo delle truppe americane. Nello stesso periodo, stando allo stesso indicatore, le nazioni dell’eurozona sono cresciute dell’11 per cento. Oppure si prenda il tasso di mortalità annuale, forse il più importante degli indicatori della salute di un paese. I dati delle Nazioni unite mostrano che il tasso di mortalità dell’Iraq è diminuito del 18 per cento tra il 2002 e il 2017. L’Iraq sta dunque vivendo un miracolo politico? Proprio per niente.

 

La percentuale di popolazione facente parte della forza lavoro è bassa, e il tasso di disoccupazione è intorno al 16 per cento. Come da sempre nella storia irachena, la corruzione continua a essere un flagello: Transparency International giudica la burocrazia del paese ‘altamente corrotta’. Il governo iracheno deve trovare un modo per risolvere questi problemi. Il che ci porta alla maggiore delle sorprese, nonché fonte di caute speranze per il futuro della nazione. Il 12 maggio, l’Iraq avrà le sue quinte elezioni nazionali libere di fila (l’articolo del Wsj è uscito qualche giorno prima: le elezioni sono state vinte dalla coalizione guidata dal religioso sciita Muqtada al sadr, ndt). Soltanto una manciata di paesi entro il raggio di mille miglia hanno una simile tradizione di voto democratico. Saddam Hussein è stato il dittatore dell’Iraq per ventiquattro anni, fino a quando non è stato rimosso. Quasi nessun altro governo arabo permette il voto libero. Se i processi in atto continuano per altri quindici anni, il governo rappresentativo dell’Iraq e la sua crescita economica saranno impossibili da ignorare in Iran, in Siria e forse anche in Turchia e in Arabia Saudita”. 

 

traduzione a cura di Tommaso Alberini

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