Camilla Alberti_(foto OMGSTUDIO 2023. Gangneung International Art Festival) 

fauna d'arte

Raccogliere le rovine con Camilla Alberti

Francesco Stocchi e Gabriele Sassone

"Cercare le tracce dell’altro nello spazio significa concentrare l’attenzione verso ciò che ci circonda e che non riguarda noi. Significa ammettere e immaginare altri punti di vista al di fuori di quello umano". Viaggio nello studio e tra le opere dell'artista

Nome: Camilla Alberti

Luogo e data di Nascita: Milano, 28/09/1994

Galleria di riferimento e contatti social: @camilla__alberti

   

L'intervista

Intervista realizzata in collaborazione con Giulia Bianchi

 

Quando hai iniziato a fare l’artista?

A fare l’artista inteso come pratica e quindi lavoro, subito dopo la laurea avvenuta una settimana prima del lockdown a Milano, quindi forse meglio dire subito dopo il covid. Le opportunità sono arrivate pian piano, spesso a mesi di distanza, ma sono piuttosto testarda e non ho mai smesso di applicare a bandi, scrivere progetti, sperimentare nuove idee e materiali. Anche il lockdown per me è stato un momento di studio e produzione piuttosto intensa. Era il momento in cui si coglieva l’occasione di una situazione gravemente fuori dalle righe per fare riflessioni sulla necessità di un cambio di paradigma e di sperimentare un tempo di vita meno fagocitante. Ma continuando parlare di tutto ciò si andavano a produrre tanti contenuti e appuntamenti che anche quando, il tempo lo avevamo per davvero libero, lo riempivano senza sosta in ritmi serrati. Io chiusi temporaneamente i social e iniziai a vivere principalmente con le piante: organismi selvatici, interstiziali molto tenaci e resilienti. Costruivo ambienti attingendo alla collezione di rovine che avevo in studio e poi li lasciavo colonizzare dalle piante. Osservavo come si adattavano allo spazio e come lo modificavano appropriandosi delle forme presenti. È stato grazie a questi momenti se successivamente ho iniziato a costruire i primi organismi di Unbinding Creatures da cui poi si sono generate tutte le altre sperimentazioni e progetti.

 

Com’è organizzata la tua giornata di lavoro?

La scansione del tempo nella giornata dipende moltissimo dal tipo di progetto a cui sto lavorando, dal materiale che impiego nel processo costruttivo e soprattutto dalla presenza o meno di organismi viventi. Un'altra variante sono ovviamente le deadline che sono disseminate lungo la carriera e la vita di ognuno di noi.

Per rispondere però alla domanda vorrei iniziare dalla considerazione che ho della pratica artistica che vedo come più simile ad un’attitudine alla vita piuttosto che a un lavoro. Non penso di essere in grado di scindere il tempo dell’arte con quello del privato ad esempio. La ricerca, l’osservazione, le considerazioni e la cura che i miei collaboratori non-umani richiedono costituiscono un processo senza fine in cui si alternano momenti di produzione pratica e altri relazionali.

La ricerca di oggetti in rovina, per esempio, è un processo che non accade in un momento specifico ma si protrae nel tempo attraverso una raccolta continua che poi viene “archiviata” in studio.

Tutto questo per dire che ci sono settimane in cui devo dedicarmi alla produzione di nuove opere e per cui rimango in studio per ore. Per questi momenti ho una branda in studio e dormo direttamente lì per non allontanarmi mai troppo dai corpi scultorei a cui sto lavorando. Altre settimane dove il mio contributo alla produzione è terminato e il mio compito è quello di prendermi cura dei collaboratori non umani che invece iniziano la manipolazione delle sculture. Raccolta, costruzione, cura e attesa.

 

Quali sono i tuoi riferimenti visivi e teorici?

Riferimenti visivi sono molteplici e di varia provenienza. Dalla scienza, al bio-design, all’arte antica… sono abituata a raccogliere tracce, ispirazioni, forme per poi convogliarle in opere dove tutto contribuisce alla creazione di un corpo altro. Giusto per riportare un esempio pratico introduco un progetto a cui sto lavorando in collaborazione con l’Istituto di Biologia dell’Università di Graz nato dalla fascinazione che ho avuto per gli organismi compositi, gli olobionti e nello specifico i licheni. Essi sono il risultato della simbiosi tra due organismi: un’alga e un fungo. Ciò che noi riconosciamo come lichene, è la struttura estetica di come appare l’organismo come se fosse l’architettura che il fungo costruisce attorno all’alga, racchiusa all’interno. Questa costruzione funzionale che attua il fungo mi ha fornito l’ispirazione sia teorica che pratica per iniziare il progetto Blended Matter.

Sono inoltre molto legata all’estetica e alla simbologia dell’oggetto nell’arte sciamanica, nello specifico quella pre-colombina che ho avuto modo di studiare durante una residenza nel Deserto di Atacama in Cile – così come le rappresentazioni, o meglio manifestazioni del Divino nelle immagini delle Icone sacre. Ammetto anche che grandi ispirazioni siano arrivate dal mondo dei videogame, primo fra tutti The Last of Us, e degli Anime giapponesi dentro i quali ho speso gran parte del mio tempo da adolescente.

Per quanto riguarda riferimenti teorici, anche qui, molto vari. Spesso, lavorando con ricercatori ed esperti in differenti campi (soprattutto quello scientifico), i riferimenti da cui attingo sono i risultati di studi svolti direttamente dal team con cui collaboro. Per citare invece dei nomi concreti, farei una breve selezione dei libri che hanno in qualche modo modificato lo scorrere della mia ricerca: Symbiotic Planet di Lynn Margulis; Il mondo della foresta (The Word For World Is Forest) di Ursula K. Le Guin, Le promesse dei mostri di Donna Haraway; Rovine e macerie di Marc Augè; Plant’s Revolution di Stefano Mancuso; The Overstory di Richard Powers; Perché guardiamo gli animali? di John Berger … mi fermo qui ma la lista sarebbe ancora molto lunga. Altri autori senza libri specifici: Rudolf Steiner, H. P. Lovecraft, E. Viveiros de Castro, Costantino E. Torres, Emanuele Coccia… anche qui una piccola selezione tra tantissimi altri.

 

Quale funzione ha l’arte nel mondo di oggi secondo te?

Come accennavo prima, considero l’arte come un’attitudine di vita. Un processo che innesca cambiamenti e metamorfosi. Credo fortemente che l’arte sia l’ultimo spazio potenziale di cui disponiamo per far accadere la magia. Un luogo in cui creare gli strumenti necessari per riflettere e agire sul presente.

Attraverso il mio lavoro cerco costantemente di costruire immaginari utili alla riconfigurazione dello “stare al mondo umano” il che significa, nel mio caso, fornire immagini, contesti, simboli, situazioni che mostrino la concretezza di coesistenze ibride e collaborazioni sia intra che inter-specie. Riportare il concetto di “altro” (alterità) più vicino, a portata di tatto e non solo di pensiero. L’attuale ricerca sugli olobionti, per esempio, è un processo artistico votato alla creazione di simboli metamorfici, sculture vive da cui poter iniziare a raccontare la storia del corpo plurimo, composto, non individuale. Un corpo che è ecosistema, vissuto, abitato e attraversato da organismi non-umani. Un insieme di altri che non sta lontano, fuori da noi ma dentro di noi.

Dal 2022 cerco di aprire il mio lavoro verso il pubblico, soprattutto attraverso laboratori in cui insieme ai partecipanti condivido il processo creativo a partire dalla raccolta di rovine contemporanee (oggetti abbandonati, scarti industriali, elementi organici…). Elementi molto importanti per me perché mostrano la presenza dell’altro attraverso le tracce lasciate dalla colonizzazione temporanea del materiale. Però durante questi laboratori mi sono accorta che nessuno trovava mai nulla, lo sguardo non era allenato alla ricerca di qualcosa che non riconosceva. Ad oggi le esperienze più significative per me sono state due: la prima, durante un laboratorio progettato per Palazzo Strozzi che coinvolgeva un gruppo di giovani affetti da spettro autistico; la seconda in Corea del Sud vicino Seoul, dove sono rimasta per tre mesi in residenza presso il Seoul Institute of the Arts per produrre l’installazione esposta poi nel Padiglione Italiano alla Biennale di Gwangju. Durante quel periodo ho avuto l’occasione di tenere un workshop per gli studenti del Seoul Arts basato sulla condivisione della pratica: dalla ricerca di rovine alla costruzione di sculture ibride nella forma e nel materiale. È stato tangibile vedere come un insieme di azioni, per me rituale quotidiano, abbiano aperto delle crepe nella struttura di visione e percezione di tutti gli studenti coinvolti.

  

A cosa stai lavorando?

Attualmente ho all’attivo la ricerca Blended Matter frutto della collaborazione con l’Istituto di Biologia dell’Università di Graz, Austria. Ad oggi il lavoro si compone di cinque sculture prodotte a partire da una struttura di alluminio poi coperta con cinque differenti biomateriali: fondi di caffè, farina di semi di lino e colla di farina e zucchero; cellulosa e colla di amido di mais e zucchero; carbone e colla di farina e zucchero; cellulosa + polvere di conchiglie e farina di amido di mais; cellulosa + sabbia + polvere di mattone rosso e colla di farina e zucchero.

Su ognuna di queste sono stati impiantati, grazie all’aiuto del Dr. Martin Grube, biologo e lichenologo, differenti specie di licheni raccolti nelle aree boschive e urbane attorno alla città di Graz. Il progetto è ancora in corso e le sculture metamorfiche si trovano in un ambiente a umidità e ricircolo dell’aria controllati all’interno del Giardino Botanico della città.

È in corso inoltre la prima edizione della Biennale di Malta diretta da Sofia Baldi Pighi insieme al team curatoriale composto da Elisa Carollo ed Emma Mattei. Io espongo un lavoro all’interno della sezione del Matriarchivio nel Grand Master’s Palace di La Valletta, un luogo storicamente simbolo di un potere patriarcale, che fino al 31 maggio sarà abitato da narrazioni femminili liquide e inclusive, di cui sono felice di fare parte. L’opera che ho presentato nasce per essere esposta in una delle teche dell’armeria del Palazzo. È una scultura “capostipite” di una nuova riflessione teorica ed estetica al contempo. Il titolo è The Out-Side Myth. Altarolo per culti meno umani ed è il frutto maturato nell’intersezione di due differenti situazioni di vita: il mio primo sopralluogo a Malta in cui ho visionato le sale del Grand Master’s Palace e ho assorbito più che potevo della storia che trasuda da ogni pietra dell’isola; il secondo la ricerca sugli olobionti nei laboratori dell’Università di Graz. L’estetica affilata e lucida delle armi disposte a coprire pareti e suolo dell’armeria, si è innestata in quella porosa e opaca delle superfici dei licheni. La scultura, infatti, si mimetizza con il luogo mostrando un involucro in acciaio che si apre per mostrare, racchiuso in una sfera di cristallo, un lichene in uno stato anidrobiotico, in cui il metabolismo è sospeso a causa del disseccamento cellulare. Questo permette al lichene di sopravvivere per lunghi periodi in condizioni non favorevoli.

L’organismo conservato come una reliquia all’interno dell’opera diventa l’epicentro di una narrazione che fa del corpo plurimo un culto mitico. La scultura diventa uno strumento, un altarolo da viaggio in cui oltre al lichene, sono custodite cinque Icone ricamate su tessuto ognuna delle quali ritrae forme irriconoscibili, connesse tra loro e soprattutto lontane dall’antropomorfismo. Poco fa, l’ho definita uno strumento, poiché vorrei in futuro utilizzare effettivamente questo genere di opere per cerimonie performative, oppure per laboratori aperti al pubblico in cui immaginare e creare insieme rituali di accettazione per mitologie ibride.

  

Che cos’è per te lo studio d’artista?

Il mio studio è all’interno di un’azienda, un ricamificio tessile che mio padre aprì più di 35 anni fa e ancora oggi perfettamente funzionante. Le dinamiche all’interno di quello spazio sono quindi pura coesistenza bilanciata tra clienti dell’azienda, curatori, amici o collezionisti in visita, produzioni di capi d’abbigliamento, corrieri, trasportatori d’arte, corpi scultorei che nascono e girano per lo spazio, oggetti e materiali in rovina riposti in scatole o contenitori, piante, ogni tanto bachi da seta… potrei continuare, ma penso di essere riuscita a fornire un’immagine più o meno chiara del luogo.

Ho iniziato a viaggiare moltissimo per lavoro, spesso anche per periodi piuttosto lunghi e lo studio per me è sempre un luogo in cui tornare. Il luogo in cui portare le rovine raccolte dall’altra parte del mondo e tutte le ispirazioni immagazzinate nella mente per convogliarle in sperimentazioni sempre differenti.

  

 

Come è nato il tuo interesse per le alleanze multi-specie?

Ho sempre avuto un’affezione maggiore e una facilità di comunicazione con creature non appartenenti alla mia stessa specie. Potrei quasi dire che il vero percorso per me sia aprire la pratica, e anche me stessa, alla relazione con l’umanità. Detto ciò, sono convinta che creare alleanze interspecie sia l’unico modo per intravedere uno spostamento nello stare al mondo umano. La grande sfida utopica del cambio di paradigma non sono sicura possa accadere dibattendo solo tra umani, anche se appartenenti a culture differenti. Penso, piuttosto, che possa anche solo accennare a un inizio nel momento in cui la nostra attenzione si rivolgerà per davvero a ciò che consideriamo “altro”. Questo dovrà accadere non per studio, necessità o sfruttamento ma per osservazione. Applicare lo sguardo che riserviamo ai nostri simili su creature con cui non condividiamo i principi ma semplicemente l’esistenza.

   

E come consideri il concetto di rovina o abbandono nelle tue opere?

Lo considero molto lontano dall’idea romantica che accosta la rovina alla solitudine. L’abbandono che caratterizza lo spazio in rovina, gli fornisce la possibilità del divenire altro. In pratica, la rovina è uno spazio abbandonato, senza un proprietario che ne definisce i confini separando il dentro dal fuori. In questa dinamica lo spazio acquisisce abitanti, diventa un luogo in cui una pluralità di specie viventi collaborano e lottano tra loro, in una continua costruzione del proprio mondo. L'abbandono è in questo caso un potenziale, un vero punto di forza, inteso come possibilità di perdere i confini per diventare uno spazio ibrido e permeante.

Faccio un esempio pratico per farvi capire meglio: una casa abbandonata in un bosco nel tempo viene coperta dalla vegetazione che apre la casa a insetti e piccoli animali. Questi, a loro volta richiamano mammiferi più grandi che vivranno la rovina come terreno di caccia e così via, fino alla creazione di un ecosistema complesso. Un luogo che in origine era la casa di un gruppo ristretto di esseri umani che ne difendevano il perimetro pulendo gli angoli dalle ragnatele, sigillando le finestre… è mutato in uno spazio molteplice, coabitativo e ibrido.

Il mio lavoro guarda alle rovine come dei simboli tangibili, tant’è che parte del processo creativo è occupato dalla ricerca e raccoglimento di rovine contemporanee: oggetti abbandonati, scarti industriali e frammenti organici. Frammenti di rovine, in rovina essi stessi. Elementi che come mappe sono in grado di raccontare storie di alterità e coesistenza poiché sulla loro superficie sono impresse le tracce di vite altrui che ne hanno plasmato la forma, eroso la brillantezza o levigato le estremità. Ogni oggetto che ci lasciamo alle spalle diventa di qualcun altro e poi di un altro ancora. Adoro creare immagini anche quando scrivo quindi riporterò un altro breve esempio: il tronco di un albero rimasto a terra dopo il taglio di un falegname, passa dall’essere un corpo vegetale a divenire cibo e casa per piccoli insetti che si insinuano tra le radici, scavando piccoli tunnel per tutta la loro vita. I muschi crescono sulla superfice della corteccia sollevandola dall’alburno e, quando le piogge erodono il suolo lasciando che le radici fuoriescano dal terreno, quel resto di tronco rotola fino al fiume vicino e poi al mare, dove le onde cacciano i tarli, il sale ne leviga la superficie per mesi e anni fino al suo approdo su una spiaggia dove si innescano nuove relazioni. Una narrazione che potrebbe continuare all’infinito stratificando vite e sfere temporali l’una sull’altra in un susseguirsi di abbandoni e appropriazioni.

Raccogliere le rovine diventa, quindi, un processo di analisi del contemporaneo attraverso lo studio della coesistenza interspecie.

 

Come concili questa poetica con lo spazio pubblico?

Come accennavo, lo spazio pubblico diventa un luogo costellato di macro e micro spazi ibridi, “dove l’alterità accade”. Cercare le tracce dell’altro nello spazio significa concentrare l’attenzione verso ciò che ci circonda e che non riguarda noi. Per trovare le tracce di vite altrui lasciate sulle superfici di frammenti di rovina, è necessario allenare lo sguardo a cogliere la vita degli altri. Significa ammettere e immaginare altri punti di vista al di fuori di quello umano.

È il processo in cui impiego maggior tempo durante i workshop aperti al pubblico. Perché moltissime persone “non sanno cosa cercare”, non sanno dove guardare o come farlo, non sono abituate a vedere ciò che accade al di là della loro attenzione. Raccogliere rovine diventa quindi un metodo per allenarsi all’incontro con ciò che non è umano allargando anche l’identità stessa di spazio pubblico a luogo ibrido.

 

Le opere

   

  

Camilla Alberti, Learning in Disbinding,2023, installation view at Dong Gok Museum, Italian Pavilion, 14th Gwangju Biennale, Courtesy the Artist and IIC Seoul

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Camilla Alberti, Unbinding Creatures. Organism 27, 2022, Courtesy the Artist

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Camilla Alberti, From the Tale of Stranded Divinities, 2023, GIAF23 Gangneung International Art Festival, Ph. OMGSTUDIO, Courtesy the Artist

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Camilla Alberti, Ci vediamo all'alba, 2023, carbone, colla di zucchero, farina e colla all'acqua, tessuto in feltro ricamato, Courtesy the Artist and Swivel Gallery

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Camilla Alberti, Serico,2023, process details, Courtesy the Artist

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Camilla Alberti, Blendend Matter. Brown Body 3,2023, fondi di caffè, colla di farina e zucchero e colla all'acqua, Courtesy the Artist

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Camilla Alberti, Blendend Matter. Metamorphical. Grey Body, 2024, cellulosa, colla di farina e zucchero, Courtesy the Artist

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Camilla Alberti, Blendend Matter. Metamorphical. Brown Body, 2024, fondi di caffè, colla di farina e zucchero, Courtesy the Artist

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Camilla Alberti, The Out-Side Myth. Altarolo per culti meno umani, 2024, on view at MaltaBiennale.art, sez. Matriarchive, Ph. @Julian Vassallo_Courtesy the Artist

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Camilla Alberti,The Out-Side Myth. Altarolo per culti meno umani,2024, on view at MaltaBiennale.art, sez. Matriarchive, Ph. @Julian Vassallo, Courtesy the Artist

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