fauna d'arte

Le "fotografie archeologiche" di Domingo Milella

Francesco Stocchi e Gabriele Sassone

"L’arte è un ponte, un ponte bianco e invisibile tra il 'trans-passato ed il trans-futuro'. Noi come schegge di luce nel buio, stiamo nel mezzo. Il tempo è l’arte. L’immagine del tempo è arte"

Fauna d'arte è una ricognizione intergenerazionale sugli artisti attivi in Italia. Ci facciamo guidare nei loro studi per conoscere dalla loro voce le opere e i modi di lavorare e per capire i loro sguardi sull’attualità. Il titolo si ispira a una sezione di Weekend Postmoderno (1990), il romanzo critico con cui Pier Vittorio Tondelli ha documentato un decennio di cultura e società italiana. A differenza del giornalismo e della saggistica di settore, grazie a “Fauna d’arte”, Tondelli proponeva uno sguardo sull’arte contemporanea accessibile e aperto, interessato a raccontare non solo le opere ma anche le persone, il loro modo di vivere dentro l’arte.

    

Oggi questo approccio ci permette ancora di parlare degli artisti, ma in futuro anche delle altre figure professionali come critici e curatori, galleristi e collezionisti, con lo scopo di restituire la complessità di un sistema attraverso frammenti di realtà individuali.


    

Nome: Domingo Milella

Luogo e data di nascita: Bari 26 dicembre 1981

Galleria di riferimento e contatti social: nessun contatto social, dealer privati


   

L'intervista

Intervista in collaborazione con Giulia Bianchi

 

Com’è organizzata la tua giornata di lavoro?

Penso di lavorare sempre, forse non lavoro mai. L’arte ha a che fare con la sospensione del senso, del tempo e del lavoro stesso. È diventata lavoro ma non doveva esserlo. L’arte è per me un giorno libero e proprio per questo devo lavorare molto. Inizio la giornata leggendo, scrivo su dei quaderni colorati quello che emerge e risolvo i problemi del reale. Compio le fredde ricerche a computer per interagire con il presente, poi cammino, corro, vado fuori a cercare. Durante la pandemia ho imparato a camminare tantissimo, a fare il bagno d’inverno; incontro i miei pensieri come immagini, con la musica, tra il ricordo e l’ascolto, disegno con gli occhi, anche quando sono chiusi.

 

Oggi qual è la funzione dell’arte?

Abbiamo abitato il pianeta camminando, cacciando, cantando vicino al fuoco, agli dèi, facendo questo per amare e per vivere, per morire. Abbiamo tirato fuori l’arte per non essere solo quello che eravamo. Nessuno la chiamava arte. Penso che questa cosa senza nome abbia radici inafferrabili nel nostro conflittuale rapporto con quello che chiamiamo natura. Tutte le immagini erano nate con una funzione prima, quella di essere sacre. Oggi invece produciamo informazioni sottovuoto; un volto povero, triste, solo, il volto del tempo digitale è una maschera. Una finzione artificiale votata al calcolo, al catalogo e alla replica. Eppure, le potenzialità della libertà digitale sono infinite, ma noi siamo mortali e fragili per quanto ci piaccia la promessa dell’utopia e della pubblicità, una falsa identità. Preferiamo il denaro alla verità.

 

Lavorando da anni sul concetto di tempo, che idea ti sei fatto?

Penso spesso che l’arte abbia profondamente a che fare con gente che non c’è più. La maggior parte dell’arte che amiamo è di esseri umani che sono morti. Questo vale per tutto il sapere e la maggior parte dei privilegi umani. Abbiamo un serio problema con le origini,per quanto dolorose esse possano essere, il loro valore politico ed ecologico è incompreso. Immaginare è indissolubilmente un processo con al suo centro il tempo. Leggevo di recente che le funzioni celebrali dell’ippocampo, che si attivano quando ricordiamo, sono molto simili se non identiche a quando immaginiamo il futuro. Ricordare, come una corda elastica porta e riporta al cuore il legame con l’avvenire. L’arte è un ponte, un ponte bianco e invisibile tra il “trans-passato ed il trans-futuro”. Noi come schegge di luce nel buio, stiamo nel mezzo.

 

Quando hai capito di essere un artista?

Ho sempre cercato un’immagine che mi appartenesse. Mi domando spesso che immagine stiamo cercando e difendendo. Penso al bisogno viscerale che ho di una stupida naturalezza. La spontaneità naturale è qualcosa in pericolo d’estinzione, in un mondo di asservimento allo schermo, dove assomigliamo sempre di più alla nostra ombra digitale, al nostro algoritmo, invece che a noi stessi. Questo per le nuove generazioni sarà il fronte di una guerra in cui non sanno di avere già il nemico tra le loro mani, nelle loro tasche, nel loro zaino, a scuola e nel letto o sotto il cuscino. Lo schermo, al buio, nella notte che tutto anticipa e tutto segue, assorbe le nostre parti più ferite, per ricattarci a ricomprarle, a ricomprarci… Walter Benjamin diceva che l’analfabeta del futuro sarà colui che non è in grado di leggere le immagini: penso che il futuro sia già qui come un muro davanti a noi.

 

Quali sono i tuoi riferimenti artistici e teorici?

Avevo solo sedici anni quando mia Zia e mio Padre mi obbligarono a seguirli a Quemado, New Mexico, in un angolo remoto del deserto americano, a visitare i “Lightning Fields” di Walter de Maria. Non ci volevo andare ma quel giorno l’arte è entrata dentro di me come un fulmine. Alcuni anni dopo avevo appena iniziato a studiare fotografia a New York nel periodo in cui crollarono le Torri Gemelle. Andai a Ground Zero e nel fumo delle rovine non portai nessuna macchina fotografica. Penso sia iniziato qualcosa dentro di me quel giorno, fu come entrare in uno spazio in negativo, a suo modo futuro. A diciotto anni vidi al MoMA la prima retrospettiva di Andreas Gursky, quelle grandi fotografie appese a un piano sotto Pollock e a un corridoio da Picasso si intarsiarono dentro di me. Il privilegio di tanti incontri incredibili, la ricerca di me stesso, la fotografia, la Scuola di Düsseldorf, la serietà della fotografia nella cultura americana, mi hanno influenzato molto. Ora a, quarant’anni, sto provando ad ibridare tutto quello che amo: Bataille con Cy Twombly, Robert Smithson con Agamben, Richter con Thomas Struth, e tante altre cose che qui dimentico di certo... Sono innumerevoli le tracce che gli altri e il mondo ti regalano, il tuo modo di ricombinarle e rigenerarle è la libertà creativa. Incarnarle, non copiarle è la vera trasformazione.

 

In che modo possiamo parlare di “fotografie archeologiche”?

Penso che il mio lavoro con le immagini, attraverso la fotografia, avrebbe potuto essere pittura, disegno, scultura o forse teoria, ma penso che sarebbe comunque stato archeologico. Non solo inteso come lo stereotipo che ci viene in mente dello scavo, dello studio delle rovine o delle sepolture, delle scritture perdute (che per altro ho fatto nei miei primi viaggi). Intendo invece l’archeologico come linguaggio delle origini, dell’arcano, della ricerca del perduto. In una società che ha fatto del nuovo e del denaro il suo unico Dio, occuparsi dell’arcaico è una forma di resistenza. Il nuovo a tutti i costi, l’acquisto come atto identitario sono la misura della povertà morale ed estetica che ci circonda. Penso anche al domani in un senso archeologico come una sorta di rinvenimento futuro. Non riesco a pensare alle immagini se non con questa strana capacità di rompere, attraversare e unire il tempo.

 

A che cosa stai lavorando?

Nel 2014 ho attraversato una grave crisi personale in cui pensai di abbandonare tutto; invece, proprio nel momento più buio ho iniziato inconsciamente il nuovo lavoro sulla preistoria. Proprio quando ho smesso di fare mostre, di lavorare intensamente con le gallerie a New York e a Londra, esattamente in quel momento il mio viaggio attraverso le caverne istoriate più incredibili al Mondo ha preso forma. Mi sono completamente dedicato a questo ribaltamento, dando le spalle al presente, ed è venuta in primis la mia cura, e poi la lenta trasformazione. Lavorare così vicino ai nostri antenati, ai primi segni e disegni della nostra specie mi ha nutrito, sconvolto, e cambiato profondamente. Non sapevo nulla di arte preistorica, eppure mi sono ritrovato a fare un viaggio interstellare, come se fossi stato risucchiato in un buco nero da invisibili forze gravitazionali. Un’esperienza che mi ha rimesso nel presente dopo avermi emancipato dal tempo stesso. Da queste immagini primordiali ho assimilato molto. Ho imparato a trovare la caverna dentro di me, anche fuori, per strada, ogni giorno. Ho iniziato un lavoro inconscio d’immagini sorgive sulle pareti del presente, anche con il mio iphone. L’arte di 40.000 anni fa mi ha dato accesso a pure linee e colori che ho iniziato a collezionare, come un gioco, un ritmo e un’armonia astratta. Ho ricevuto un prezioso premio dalla Royal Academy of Arts a Londra questa primavera, per continuare la ricerca nelle caverne, e sono felice di rendere il corpus del mio lavoro sempre più irripetibile e prezioso. Insomma, non vedo confini a cose che confini non hanno.

 

Che cos’è per te lo studio d’artista?

Direi a questo punto che lo studio dell’artista è la caverna, lo è sempre stata. Esiste un’intima affinità tra il nostro occhio, la grotta e la camera obscura: la nostra mente. Sono tante le affinità tra questi spazi dell’immagine, delle idee e del sogno.

  

 

Le foto nello studio sono di Domingo Milella


   

Che cosa cambia nel fotografare un paesaggio sotterraneo rispetto al paesaggio di superficie?

Sono ventidue anni che fotografo con un grande banco ottico analogico di 20 x 25cm, una camera obscura portatile, la stessa tecnologia dell’invenzione della fotografia. Nel 2016 ho iniziato a entrare nelle grotte più importanti della storia della specie umana con questo strumento assolutamente sproporzionato e inadatto al luogo. Il punto era esattamente questo, portare una caverna dentro un’altra caverna. Da questo sforzo biblico ho potuto comprendere, rispettare, adattare il mio sguardo alla complessità sia geologica che simbolica dell’arte che andavo a contemplare, per rispecchiarla. La nuova immagine e la più antica si son toccate per un istante.

Il tempo è l’arte.

L’immagine del tempo è arte.


   

Le opere

Questa montagna a nord di Santander, sul fiume Pas, contiene il complesso di grotte con la più incredibile concentrazione di arte preistorica al Mondo. Un passaggio segreto al centro del tempo, alla fine dello spazio. Un giorno al tramonto, allontanandomi dalla montagna magica mi voltai per salutarla, il profilo del triangolo perfetto si era sorprendentemente deformato, apparendo come la silhouette di un Mammut dormiente.

Lingua Sengai, ideogramma

  

 

Domingo Milella EL CASTILLO, SPAGNA2016, 112 x 134 cm, Stampa Inkjet, Montaggio Diasec, Edizione di 5. Cortesia dell’Artista

 

Nella grotta di Santian, al suo fondo, circa 200 metri oltre stalattiti e stalagmiti bellissime si presentano questi 15 segni rossi. Questi sono in una stanza vuota e priva di bellezza geologica, un foglio di pietra più chiara su cui furono fatte queste cifre segrete tra 12 e 30.000 anni fa. Penso spesso a Fontana quando guardo quest’arte primitiva, il nome stesso dell’artista ci dice esattamente quello che cercava l’uomo primitivo nel fondo della Grotta; Lucio Fontana = Fontana di Luce.

 Lucio Fontana, I tagli

 

  

Domingo Milella, SANTIAN, SEGNI, SPAGNA 2016, 161 x 204 cm, Stampa Inkjet, Montaggio Diasec, Edizione di 5. Cortesia dell’Artista

  

Tutti gli animali ritratti dall’uomo nelle caverne preistoriche non hanno gravità, essi fluttuano in un quadro astratto, sono apparizioni. Non esiste un terreno, un albero, un sole od una luna nell’arte paleolitica, tutto è simbolo, energia, movimento nell’immobilità del tempo senza tempo.

 

Felipe Galindo, How ancient influenced modern art

  

   

Domingo Milella PECH MERLE, CAPPELLA DEI MAMMUT, FRANCIA 2018, 131 x 167 cm, Stampa Inkjet, Montaggio Diasec, Edizione di 5. Cortesia dell’Artista

 

Sono anni che ricerco immagini blu, avrei voluto imparare a dipingere, ho provato a farlo con la fotografia. La parola celato, caelare, “nascondere”, sembra abbia radici vicine alla parola cielo, coelum, dal greco koilon, “cavo”. Varrone parlava di “a cavo caelum”. Dunque, ha la caverna un rapporto con il cielo?

 Universum, Parigi 1888

  

 

Domingo Milella, GEMELLI BLU, ITALIA 2020, 155 x 195 cm, Stampa Inkjet, Montaggio Diasec, Edizione di 5, Istallazione della Mostra ASPERASTRA, BARI 2023,Foto Gianni Zanni

   

Dentro una delle parti più profonde della Caverna del Castillo, si giunge in fine a contemplare la galleria dei dischi, un gruppo di più di 100 segni circolari in ocra rossa di oltre 300 secoli fa. Cosa stavano a demarcare? Oltre i dischi vi è solo una rampa che conduce alla fine geologica e ormai stretta di una caverna che prima era così alta da vederne solo buio al di sopra. A terra ci sono sole tre piccole incisioni di cavalli. La caverna ed il cosmo, l’anima e l’animale, demarcano il confine sacro tra noi e loro, tra il finito e l’infinito.

 

First Ever Decode of Voyager Audio Images

 

 

Domingo Milella, EL CASTILLO, DISCHI, SPAGNA 2016, 81 x 103 cm, Stampa Inkjet, Montaggio Diasec, Edizione di 5 Cortesia dell’Artista 

 

È stato naturale esporre per la prima volta il mio lavoro sulla preistoria, in una luce liminale, dopo il tramonto, di notte, in una chiesa senza facciata, segreta.

 

Rombo, suono (Oceania)

   

 

Domingo Milella, Installazione della Mostra IL TEATRO DEL TEMPO, SAN FRANCESCO DELLA SCARPA, LECCE 2021, Foto Gianni Zanni

 

 

La Grotta dei Cervi a Porto Badisco si trova nel punto più a oriente della Penisola Italiana, nel tratto di mare che in antichità doveva delimitare il ponte tra oriente e occidente. Anni prima di entrare nella grotta, navigando di notte il tratto di mare tra Porto Badisco e la prima isola della Grecia, incontrai un Delfino bianco che solcando le acque a velocità inaudita emanava una luce bluastra, fosforescente. Il rapporto tra le caverne e gli abissi è molto intimo.

 

Delfini nuotano nella Bioluminescenza

 

 

Domingo Milella, GROTTA DEI CERVI, IL DELFINO, ITALIA 2019, 185,5 x 222,1 cm, Stampa Inkjet, Montaggio Diasec, Edizione di 5. Cortesia dell’Artista 

    

Una delle immagini più belle e più antiche che abbiamo nella penisola italiana. Ci ricorda qualcosa che non riusciamo a ricordare...

 

Picasso Mastercalss, How to kill a bull

 

 

Domingo Milella, GROTTA DEL ROMITO, URO, ITALIA 2015, 185,5 x 225,5 cm, Stampa Inkjet, Montaggio Diasec, Edizione di 5. Cortesia dell’Artista 

    

Tutto il lavoro astratto che sto facendo sembra porsi al polo opposto della ricerca preistorica, ha a che fare con la cancellazione, con l’impossibilità di conoscere, con l’ignoranza non del passato, ma del futuro. 

 

Panchi di Beppe Sebaste

 

 

Domingo Milella, IMG 7974, 2022, 46 x 36 cm, Stampa Inkjet, Edizione di 10. Istallazione della Mostra ASPERASTRA, BARI 2023, Foto Gianni Zanni 

 

Mi domando spesso che cosa è rimasto del sacro oggi 

  

Brian Eno, New Space Music

 

 

Domingo Milella, installazione della Mostra, LE FORME DEL TEMPO, SINAGOGA SEFARDITA, PESARO 2019. Foto Alessandro Dandini de Sylva