Il Foglio arte

Una, nessuna e cento donne nelle tele mai finite di Willem de Kooning

Furio Zara

Geniale, irascibile, prima povero e disadattato, poi ricchissimo. Rifuggiva le correnti, si reinventava di continuo. E ogni pigmento di colore sembra investito da un uragano

Nella superficie increspata da violenti raggrinzimenti, nel magma cromatico di colori screziati, nel contorcimento spezzato di carne viva e palpitante che si snoda in una foga animalesca, la luce si deposita in un abbandono che anima il quadro, gli dà fuoco, straripa, deborda, inonda del suo splendore incandescente tutto ciò che lambisce. Se c’è un filo che unisce l’Espressionismo astratto e arriva fino alla Pop Art, bisogna cercarlo nelle opere di Willem de Kooning. Elogio dello straripamento e dell’eccesso; colui che crea è ostaggio dell’impossibilità di finire e della casualità del finito. La perfezione è sempre altrove.


Nato a Rotterdam, figlio di un distributore di vini e di una barista, studente all’Accademia d’Arte, a ventidue anni – è il 1926 – si stabilisce a Newport, in Virginia, dove lavora come cartellonista, decoratore e disegnatore pubblicitario, prima di fare – un anno dopo – le valigie per New York, che presto – illuminata tra gli altri da Jackson Pollock e Mark Rothko – diventerà la capitale artistica del pianeta. Cresciuto nel mito di Picasso, pazzo della “lussureggiante pittura” di Soutine, WDK coniuga la traccia dell’Espressionismo – vedi alla voce Kandinsky – con la scintilla dell’Astrattismo americano, che si riconosce in Arshile Gorky, suo mentore. 


E’ nei tardi anni '40 che De Kooning si consacra. Rifugge le correnti, si reinventa in continuazione. Prima mostra personale nel 1948, alla Charles Egan Gallery, già marito da qualche anno della tormentata Elaine, con cui vivrà a strappi, fino (quasi) alla fine. Geniale, irascibile, stravagante, prima povero, irrimediabilmente povero, quindi disadattato, borderline, naturalmente inclinato verso l’uso smodato di alcool, poi ricco, ricchissimo – il suo Interchange fu venduto nel 1989 alla cifra record, mai raggiunta da alcun pittore vivente, di 20 milioni di dollari – è quello il periodo in cui, già consumato dall’Alzheimer e dichiarato incapace di intendere e volere dalla Corte suprema dello Stato di New York, ha una collezione da 150 milioni di dollari e un patrimonio stimato di oltre 10 milioni di dollari.

 

Sopravvissuto a tutto, persino a sé stesso; esce dal quadro della vita nel 1997, a 92 anni, perduto in quella nebbia dolce e terribile dove ogni volto non ha una storia e quando si riconosce la propria è la fine. Sempre in bilico tra astratto e figurativo, ogni sua opera è spaesamento. Dorothy nel Mago di Oz: “Toto, ho l’impressione che noi non siamo più nel Kansas”. Un quadro non è mai finito, ma solo interrotto nella sua lavorazione. Fare/Disfare. Battere/Levare. La gestualità istintiva, i larghi colpi di spatola, pennellate aspre e perentorie, linee caotiche e violente. Donne che bruciano di desiderio, occhi dilatati, denti digrignanti; la donna demone e la donna dea della fertilità, straziata da un vorace appetito erotico, ballerina di seconda fila che – questo è Fabrizio De Andrè in Amico fragile – agita il suo presente di seni enormi e il cesareo fresco. Disse: “La carnalità è la ragione per cui la pittura a olio è stata inventata”. Rubens sì, ma riverniciato di modernità.

 

Tutta la vita – questo il suo sogno – da dedicare a un solo quadro: Woman I. Ne La Caduta Albert Camus – parlando degli olandesi – racconta di “fumatori di pipa che da secoli contemplano la medesima pioggia che cade sul medesimo canale”. Dare la cera, togliere la cera. Viviamo di tentativi, ma soprattutto di pentimenti. Già vegliardo – e più disposto nei suoi quadri ad approdare nella terra della leggerezza e dell’eleganza – spiegò: “Non dipingo per vivere, vivo per dipingere”. L’Olandese Furente: un bambino infinito che ha passato la vita a distruggere il suo gioco, tra desiderio di possesso e angoscia di possedere. L’arte è sempre là dove non la stiamo aspettando, l’unica fede a sorreggerci è nel gesto della mano che dipinge. Così nell’opera di Willem de Kooning ogni pigmento di colore pare investito da un uragano e restituisce un’idea feroce di fisicità, ed è tutto quello di cui abbiamo bisogno, in fondo: sentirci vivi o – al massimo – trovare uno che ce lo confermi. Tutto deborda dalla superficie del quadro, come il vino sulla tovaglia quando calcoliamo male la quantità da versare sul bicchiere. L’opera non rappresenta la fine, ma l’attimo in cui ci siamo arrestati, accettando il dolore dell’incompiutezza.

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