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De André, il dio di via del Campo

Costanza Di Quattro

L’amore, il giudice nano, la teologia dell’indulgenza. Bocca di Rosa è sempre qui e Faber rivive in tv

Questa di De André è una storia vera, la storia di un poeta che ha cantato la poesia e di un cantante che ha poetizzato la musica. E’ la storia di un uomo che “il potere lo ha scagliato dalle mani” schierandosi apertamente dalla parte dei vinti, di quella gente consunta dai vizi e dalle miserie umane. Ma è anche la storia di un animo ribelle spinto sempre alla critica spietata, ironica e pungente verso tutti coloro che del potere hanno fatto vessillo, arma e strumento di sottomissione. E sebbene oggi la sua parola non suoni più così rivoluzionaria, resta pur sempre poetica, contemporanea e incisiva.

 

Nel suo canzoniere di duecentododici canzoni, alcune delle quali scritte in collaborazione con i più grandi compositori e cantautori del panorama artistico che spazia dalla fine degli anni Cinquanta al 1998, De André ha cantato l’amore, l’odio, la rabbia, il livore, l’invidia, il perdono e la violenza rimanendo dentro un pentagramma elementare. Il suo registro musicale è ancorato alle rigide strutture della ballata e della chanson di origini popolari, con tutte le naturali declinazioni di cui la musica leggera sa avvantaggiarsi. Eppure una chitarra e la sua voce bastavano per denunciare, riflettere e sognare. Tutti i sentimenti umani hanno danzato sulle note, spesso tristi, di una musica lenta. Whiskey e poesia, musica e silenzi hanno fatto da cornice a un genio solitario di nome Faber. Faber, non per un latinismo ma per quella passione verso i colori delle matite Faber Castell che De André tanto amava, fino a spezzarle con le mani e a masticarle con i denti. Faber, dunque, musicale e poetico, colorato e ambiguo come quel complicatissimo romanzo di Tristan Garcia. Faber: mai nome fu più adatto.

 

Un registro musicale ancorato alle strutture della chanson di origini popolari, con le declinazioni di cui la musica leggera sa avvantaggiarsi

I suoi infiniti dualismi: parole e suoni, grammatiche e spartiti, sogno e realtà, vita e morte, sottoproletariato e borghesia

Rai Uno lo ha riportato nelle case degli italiani con le due puntate del “Principe libero” di Luca Facchini, il film tv con il cantautore interpretato da Luca Marinelli andato in onda martedì e mercoledì. Eppure Fabrizio De André dalle case di chi ha atteso l’uscita del film non era mai andato via. Eterno evergreen di ogni playlist, i suoi cd sono un punto d’onore, le sue citazioni una costante che echeggia nella bocca di chiunque abbia anche solo per una volta prestato l’orecchio alla sua musica.

 

Beffarde sono le sue parole come quel sorriso nascosto dal ciuffo, angeliche e superbe, sprezzanti dei luoghi comuni, delle banalità, ostentatamente irriverenti persino con la morte. Quella morte cantata, perdonata e ridotta, cristianamente, a logica evoluzione della vita. “Ci sarà allegria anche in agonia col vino forte, porteran sul viso l’ombra di un sorriso tra le braccia della morte”. Maître à penser, sociologo moderno o bardo medievale, Faber ha padroneggiato la lingua italiana sfruttando ogni artificio lessicale fino a diventare un moderno Dante intriso di allegorie, simbolismi, ossimori, anacoluti. Il suo tratto fondante fu il bilanciamento continuo di infiniti dualismi: parole e suoni, grammatiche e spartiti, sogno e realtà, vita e morte, sottoproletariato e borghesia. E fu proprio in quest’ultimo dualismo che De André elaborò uno degli elementi più ricorrenti della sua vastissima produzione, ovvero quello legato alle prostitute, di cui cantò l’emarginazione con il rispetto che si deve ai vinti e con l’amore che si regala ai soli. Chi è costretto a vendere il proprio corpo non è un diverso da condannare, ma una persona spesso segnata da una vita stretta fra il dolore e la sventura, fra la disperazione e l’abbandono.

 

In quei “quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi” De André è riuscito a passare attraverso le miserie del mondo senza condannarle. Raccontandole semplicemente. Le sue Bocca di Rosa, le Marinelle e tutte le abitanti di via del Campo non sono dispensatrici di sesso bensì d’amore. “C’è chi l’amore lo fa per gioco, chi se lo sceglie per professione, Bocca di Rosa né l’uno né l’altro, lei lo faceva per passione”. La passione spinge Bocca di Rosa a prostituirsi così come l’amore porterà Marinella a seguire “un re senza corona e senza scorta” abbandonata al sogno, alla speranza di un futuro migliore, “senza una ragione, come un ragazzo segue un aquilone”. Perché una puttana “stabilisce il prezzo alle tue voglie” facendoti rimpiangere sempre quegli occhi verdi di via del Campo, gli occhi di chi “ ti guarda con un sorriso” e tu “non credevi che il paradiso, fosse solo lì al primo piano”.

 

  

La quasi ostentata volontà di non giudicare lo portò spesso a scagliarsi, vestito sempre di quella sapiente ironia, contro i giudicanti, quelli che lui stesso definì “arbitri in terra del bene e del male”. Basti pensare che nella ballata veloce dal titolo “Un giudice” il sottotitolo, immediatamente sottoposto a censura, recitava: dietro ogni giudice c’è un nano. Alla cattiveria dei nani, teorizzata in quella spietata immagine secondo cui “un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo”, De André accosta la ragionata cattiveria di chi giudica ergendosi a Dio, di chi sfrutta il proprio potere per incutere timore. Ma non è solo “Un giudice” a segnare le distanze fra il cantautore e quel mondo seduto dietro la comoda cattedra di un tribunale. “Il gorilla”, traduzione della ballata di Georges Brassens, mostra quel senso di giustizia che permea continuamente il pensiero politico e sociale di De André: “Ho sempre avuto due chiodi fissi: l’ansia di giustizia e la convinzione presuntuosa di poter cambiare il mondo”, diceva di sé. Ricordate l’immaginifica scena di quel giovane con la toga violentato dal gorilla? “Sul più bello dello spiacevole e cupo dramma, piangeva il giudice come un vitello e negli intervalli gridava mamma, gridava mamma come quel tale cui il giorno prima come a un pollo, con una sentenza un po’ originale aveva fatto tagliare il collo”. L’ansia di giustizia tanto ricercata da Faber, almeno per una volta, era stata saziata.

 

Parole beffarde, angeliche e superbe, sprezzanti dei luoghi comuni, ostentatamente irriverenti persino con la morte

Contro gli “arbitri in terra del bene e del male”. De André è riuscito a passare attraverso le miserie del mondo senza condannarle

All’asprezza della denuncia e alle bruttezze di una realtà spesso insopportabile fa eco la leggerezza di un amore per lo più intriso di struggente malinconia. E’ l’inganno del sentimento a fare da padrone, la sua mutevole natura, il suo effimero ed evanescente esistere, la tenera rassegnazione per ciò che è stato e più non sarà. Quell’amore sempre pronto a rifugiarsi nell’ipocrisia dei mai: “Ricordi? sbocciavan le viole, con le nostre parole, non ci lasceremo mai, mai e poi mai…”, un amore eternamente in bilico tra il desiderio di eternità e l’inafferrabile fluire del tempo. Ecco, ciò che consideravamo imperdibile di colpo è irrimediabilmente perduto. Amori sfiorati, sfiniti, cercati e svaniti. Ma anche amori rinati nella magnifica parabola che è la vita: “E sarà la prima che incontri per strada che tu, coprirai d’oro per un bacio mai dato, per un amore nuovo”. Passioni sofferte come quella di “Dolcenera”: “Come fa questo amore che dall’ansia di perdersi ha trovato in un giorno la certezza di aversi”. Amori solo immaginati come quello descritto ne “Le passanti”, dove la sola illusione di una scintilla che si accende riesce a salvarti dal baratro del nulla. Il riferimento a “A une passante” di Charles Baudelaire è chiaro, sebbene in De André le passanti sono infinite così come infinta è la speranza eterna e costante di amare ancora. Una dedica a tutte quelle donne “già prese, e che vivendo delle ore deluse, con un uomo ormai troppo cambiato, ti hanno lasciato inutile pazzia”.

 

Basso il suo timbro, calda la sua voce, morbido il suo arpeggio, profondissimo il suo dire. De André si porta dietro il grande merito di avere educato, al pari dei grandi della letteratura, generazioni intere al bello, alla riflessione, alla difficoltà di una lingua armonica e complessa, elaborata e talvolta complicata che attraverso lo strumento musicale si è aperta al mondo rendendosi più riconoscibile di quanto non lo avesse fatto l’inchiostro sulle pagine di un libro.

 

Poeta, sociologo, folksinger, rivoluzionario e forse anche teologo Faber. Nella “Buona Novella”, che lui stesso definì “uno dei miei lavori più riusciti, se non il migliore” ha voluto segnare il confine tra la spiritualità e la rigida dottrina. “Avevo urgenza di salvare il cristianesimo dal cattolicesimo”, diceva. E cosi fece, dipingendo Gesù di Nazaret come il più grande rivoluzionario di tutti i tempi, esaltando la bellezza dei vangeli apocrifi poiché veri, anarchici, odiati e perciò allontanati per anni con un ostinato vade retro.

 

 

E’ forse il più grande lascito che il grande cantautore ci ha donato; un’opera d’arte capace di coniugare etica ed estetica in un binomio inscindibile. Divisa idealmente in due parti “La buona Novella” descrive inizialmente le figure di Maria e Giuseppe, umanizzandole, rendendole immense nella loro sofferta verità: “… E fosti tu Giuseppe, un reduce del passato, falegname per forza, padre per professione, a vederti assegnata da un destino sgarbato una figlia di più senza alcuna ragione, una bimba su cui non avevi intenzione”. Il coro, la cui valenza si accosta alla tradizione della tragedia greca ovvero a quella del giudizio del popolo, accompagna in un crescendo musicale tutto l’andamento della traccia in una sorta di antifonia liturgica. E’ proprio a questa prima parte che De André dedica forse uno dei testi più belli di sempre: dietro “Il sogno di Maria” viene trattato uno dei temi più delicati e all’un tempo insidiosi della fede cristiana: l’Immacolata Concezione. “Il sogno di Maria” è un continuo susseguirsi di immagini dalla forza straordinaria. La descrizione ingenua e distesa di quel sogno, che sogno non era, consegnata all’incredulità di Giuseppe, ha la bellezza e la meraviglia del miracolo. L’ultima strofa, quella della confessione vera e propria “parole confuse nella mia mente, svanite nel sogno ma impresse nel ventre” si amplifica di commozione di fronte al perdono di Giuseppe: “E la parola ormai sfinita si sciolse in pianto, ma la paura dalle labbra, si raccolse negli occhi, semichiusi nel gesto, di una quiete apparente, che si consuma nell’attesa, di uno sguardo indulgente. E tu piano posasti le dita, all’orlo della sua fronte, i vecchi quando accarezzano, hanno il timore di far troppo forte”.

 

Dopo l’“Ave Maria”, inno a tutte le donne “vergini un giorno e poi madri per sempre”, De André ci accompagna sotto la croce restando sempre fedele al registro umano, tributando al dolore della perdita di un figlio un valore di carne e sangue, di lacrime e disperazione. Maria non è più una madre rassegnata a un volere più grande bensì una donna che osa gridare, disperata “se tu non fossi figlio di Dio ti avrei ancora per figlio mio”.

 

Ma è al perdono che De André regala una pennellata di immenso donando alla storia l’immagine più bella, forse, della cristianità. E non si servirà né di Cristo né della Vergine. Sarà Tito, il buon ladrone, l’ultimo tra gli uomini il primo tra i santi a riassumere tutto il cristianesimo nelle sue ultime parole prima di morire in croce: “Io nel vedere quest’uomo che muore, Madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, Madre ho imparato l’amore”.

 

Al pari di Borges che Leonardo Sciascia definì “il più grande teologo del nostro tempo: un teologo-ateo”, anche De André lascia spazio a una affermazione altrettanto stridente. Di Borges ci rimane una nota di grande speranza e di fede indiscussa: “Nelle crepe Dio è celato e attende… Dio mio sognatore continua a sognarmi”. Di De André ci rimane la luce di una rassicurante teologia del sorriso e dell’indulgenza: “Venite in Paradiso, là dove vado anch’io, perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”.

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