Grammar school classroom, 1899. Image courtesy US Library of Congress. 

Il Foglio Arte

International Art English, la lingua matta

Francesco Stocchi

È l’idioma ufficiale dell’arte e delle sue relazioni. Neologismi pigri, verbi soavi e tanti prefissi. Un comunicato stampa per Sherine Levine in mostra a Londra come esempio

The artist brings the viewer face to face with their own preconceived hierarchy of cultural values and assumptions of artistic worth. Each mirror imaginatively propels its viewer forward into the seemingly infinite progression of possible reproductions that the artist’s practice engenders, whilst simultaneously pulling them backwards in a quest for the ‘original’ source or referent that underlines Levine’s oeuvre.” (“L’artista porta lo spettatore faccia a faccia con la propria gerarchia preconcetta di valori culturali e presupposti di valore artistico. Ogni specchio proietta immaginativamente il suo spettatore nella progressione apparentemente infinita di possibili riproduzioni che la pratica dell’artista genera, mentre simultaneamente lo tira indietro in una ricerca della fonte ‘originale’ o referente che sottolinea l’opera di Levine.”)

Che cos’è, o meglio di che lingua si tratta? I periodi riportati sono tratti da un comunicato stampa della galleria Simon Lee di Londra che presentava la mostra dell’artista Sherine Levine. Levine riproduce opere di altri artisti considerate iconiche della storia dell’arte. Non lo fa per mancanza di idee ma perché interessata agli sviluppi della rivoluzione duchampiana del ready made. Levine in certi casi aggiunge una variante all’opera copiata, come per esempio l’urinatoio placcato d’oro (da non confondere con “America” il water opera partecipativa in oro massiccio di Cattelan). Un omaggio al rinomato readymade di Duchamp che Levine trasforma in un “oggetto d’arte” elevandone la materialità e la finitura. Come artista femminista, Levine afferma di riprodurre opere specificamente di artisti di sesso maschile per sottolineare il dominio patriarcale nella storia dell’arte. Non abbiamo bisogno di augurarle il meglio dato che Levine ha esposto sin dai primi anni 90 nelle più prestigiose istituzioni mondiali e le sue opere sono entrate a far parte delle collezioni dei musei più ambiti. Ciò di cui sembra che Levine invece abbia bisogno è quella sintassi articolata riportata sopra per edulcorare e conferire valore aggiunto a qualcosa di sostanzialmente semplice.

 

Forse non è Levine stessa a sentire di averne bisogno, non lo sappiamo, ma sicuramente i professionisti dell’arte (galleristi, curatori, mediatori, advisor, etc.) adottano tale prosopopea per cercare di conferire senso e valore nei confronti del loro pubblico. Questa forma barocca linguistica, fobica delle idee chiare e semplici si chiama International Art English (Iae), il patois del mondo dell’arte con il quale gli operatori del settore hanno a che fare quotidianamente e che assume dimensioni parossistiche la domenica al mercato (durante le fiere). Nata per affermare l’appartenenza a un gruppo esclusivo, si è sviluppata negli anni con l’intento di sedurre in poche frasi gli avventori degli stand fieristici. Il tempo è poco, l’offerta visiva è ricchissima, i colori e le forme non bastano per distinguersi dal resto delle opere, ci vuole il sostegno di qualche formula magica per garantire l’entrata nel club attraverso il possesso dell’opera, già divenuta feticcio prima ancora di essere acquistata. 

  

L’Iae non è da confondersi con uno slang, perché è una lingua con i suoi codici che viene parlata, scritta e insegnata. Con un paio d’anni di corso in una scuola prestigiosa quale il Courtauld Institute per esempio, si ha la garanzia di riuscire a padroneggiare l’Iae e a parlare profusamente del nulla incassando l’interesse dei propri interlocutori. Qualcosa non da poco che può tornare molto utile, immagino, specialmente in un contesto dove la paura di non sentirsi intellettualmente preparati si confonde troppo spesso con le legittime inclinazioni personali (non mi interessa non vuol dire non lo capisco, punto). 

   

Che cosa caratterizza questa strana lingua, interessantissimo caso socioculturale? L’Iae non è localizzata in nessun luogo specifico e sebbene le persone che la usano non si conoscano tutte, possono facilmente identificare la loro affiliazione attraverso il ricorso ai suoi codici. Come per esempio dire “scialla” o nell’invitare qualcuno a “colazione” (inteso come pranzo) automaticamente si rientra in un registro sociale ben definito che l’interlocutore tiene a difendere quale indice di appartenenza. L’Iae come forma linguistica d’élite tende a essere imitata da coloro che non sono dell’élite, così che altre forme dialettali, personali o spontanee vengono gradualmente eliminate generando la cosa più interessante, che l’élite, riconoscendo questa imitazione, crea costantemente nuove elaborazioni linguistiche per distinguersi dal gregge comune. Quindi una lingua dinamica, reattiva, in continuo cambiamento (avrei potuto dire “una forma espressiva socio-relazionale che indaga il concetto di dinamicità, adottando nozioni di reattività per esplorare tutte le sue potenzialità trasformative”). 

  

La rivista newyorkese Triple Canopy ha pubblicato qualche anno fa uno studio analitico su questa particolarissima forma linguistica, analizzando migliaia di comunicati stampa, considerati come la forma più pura e diffusa dell’International Art English. Quali sono quindi le origini dell’Iae e come si distingue dall’inglese corrente? L’Iae sembra trarre origine dalla pratica di accademici statunitensi, come sappiamo infatuati, in certi casi ossessionati dai critici, filosofi tedeschi e soprattutto francesi. Le traduzioni di questi testi apparsi negli anni 70 in pubblicazioni accademiche quali October, presentavano una prosa pomposa ricca di paradossi, condita da avverbi e inscritta in frasi infinite dalle pose ribelli. Quindi, la lingua ufficiale dell’arte e delle sue relazioni, diventa un miscuglio linguisticamente privo di significato di parole d’ordine, scritte in uno stile tormentato importato dal post-strutturalismo francese e dalla Scuola di Francoforte. L’avvento di internet non ha fatto altro che accelerarne lo sviluppo, trasformando l’Iae in una sorta di lingua franca. 

Quali sono quindi le sue peculiarità lessicali, grammaticali e stilistiche? La più evidente è il ricorso a quelli che definirei neologismi pigri, la presenza di sostantivi che non esistono in lingua inglese ma che comunque si basano su di essa. “Visual” in inglese, diventa “visuality” in Iae, come “gobal” diviene “globality” e “experience” “experienciality”. Altri esempi di termini ricorrenti, caratterizzanti dell’Iae sono gli aggettivi quali “gestural”, “restrained”, verbi soavi come “explore”, “trace”, “question”, oppure terminologie quali “negative space”, “balanced composition”, e “challenges the viewer”, senza dimenticare la profusa presenza di prefissi come para-, proto-, post- e hyper- molto diffusi nel tedesco che espandono esponenzialmente, in apparenza, il lessico. 

Qualche anno fa, il rinomato artista Olafur Eliasson mostra per la prima volta il suo lavoro a San Paolo in Brasile in tre distinte istituzioni. L’occasione è necessariamente importante quindi la sua mostra invita “il pubblico a sperimentare la percezione del colore, l’orientamento spaziale e altre forme di coinvolgimento con la realtà, raccogliendo modelli di realtà contemporanee e luoghi di conflitto (…) una mostra che ci insegna che il sub reale è formato dagli avanzi della realtà”. 

Il corto circuito è che mentre l’Iae nasce per promuovere e creare un rapido valore aggiunto nella comunicazione dell’arte, gran parte di questi scritti promozionali servono principalmente come munizione per coloro che credono che l’arte contemporanea sia una frode. Come tutte le lingue, l’Iae unisce e divide al tempo stesso ma la necessità comunicativa viene sostituita dalla ricerca di appartenenza. Lo studio di Triple Canopy ha generato dibattiti, critiche e commenti tanto da aver spinto gli autori Alix Rule e David Levine a pubblicare un’edizione aggiornata del loro studio che, tengono a sottolineare, è serio e non vuole divertire. Personalmente trovo che sia necessaria una discreta dose di ironia e tanta leggerezza quando si discorre con questi cloni linguistici. E’ vero che questo è il linguaggio attraverso il quale l’arte contemporanea viene creata, promossa, venduta e compresa ma la sua pomposità è proprio espressione della sua fragilità. Ripetere una delle terminologie tipiche dell’Iae appena usate dal vostro interlocutore lo farà cadere in uno stato di paura. Il flusso si è interrotto, cosa fare, ragionare su quanto si è veramente detto? A quel punto se gli si ricorda Carducci (“Chi dice in dieci parole quello che può dire in due, è capace di uccidere suo padre”), la paura lascerà spazio al terrore.

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