Elgin Marbles British Museum (foto Wikipedia)

Restituire bene il maltolto. Storie di un'emozione troppo facile

Francesco Stocchi

Il Louvre rende agli ebrei le opere rubate. Ma come fare con gli Stati e i marmi di Atene? E i Bronzi del Benin? Tra proclami manichei e mappe del passato

Questo articolo è stato pubblicato nel primo numero del Foglio Arte, il mensile del Foglio dedicato all'arte, in edicola ogni ultimo venerdì del mese. Il prossimo numero sarà pubblicato venerdì 28 febbraio 2020.


 

Bisogna essere molto cauti. Se la libera traduzione dei sentimenti che diventano ossessioni, il bisogno incontrovertibile di cambiare le regole, la consapevolezza dei propri stati emotivi, rappresentano fondamenti dell’espressione artistica, quando si esaminano fatti, storie e opinioni che riguardano l’arte è necessario che i paradigmi cambino. Ci sono questioni per le quali il fattore emotivo è tale da offuscare la ragione, oppure ci sono convinzioni che appaiono così palesemente giuste che nel difenderle si finisce per assumere posizioni polarizzanti, magari impoverite, al servizio di un tweet efficace. Convinzioni che presto si trasformano in cause con slogan dettati dell’emozione, utili in fondo a esorcizzare i sensi di colpa. E più ci sentiamo smarriti, più ci affidiamo al fattore emotivo, come bene descrive William Davies in un suo recente saggio.

 

La questione della restituzione delle opere d’arte sottratte principalmente durante periodi bellici o durante occupazioni coloniali, è materia così importante da richiedere una serie di distinguo sulla base di studi che non possono essere corrotti da fattori emozionali.

 

Le misure adottate, i tempi e i modi variano significativamente a seconda del paese e del caso in questione. Se negli ultimi anni si è assistito a un incremento di sforzi concentrati nell’identificare le opere d’arte confiscate dalla Germania nazista, la restituzione di reperiti archeologici o oggetti provenienti dai paesi colonizzati è materia di continue e ripetute discussioni, contraddizioni e paradossi.

 

Nel dicembre del 2019 il museo del Louvre ha assunto Emmanuelle Polack, storica dell’arte ed esperta di mercato dell’arte francese nel periodo dell’occupazione tedesca, con il compito di esaminare le acquisizioni sospette fatte dal museo francese durante il regime di Vichy. Non è passato nemmeno un mese che Polack ha identificato dieci opere nella collezione del Louvre che appartenevano a un avvocato ebreo prima della loro vendita forzata all’asta. Le opere sono ora oggetto di una richiesta di restituzione ufficiale da parte dei suoi eredi. E siamo solo all’inizio. Fin qui tutto bene, e la convinzione sostenuta dai fatti, è che si tratta solo di una questione di tempo. Come ripete spesso Erika Jakubovits che si dedica da decenni alla restituzione di opere sottratte a collezionisti ebrei, bisogna avere pazienza. Si lavora ogni giorno fino a che l’ultima opera verrà restituita ai legittimi eredi dei proprietari. E’ una questione di diritti fondamentali del privato, fatti incontrovertibili e tanto recenti da poter riuscire a ricostruire una continuità storica, ma quando le controversie in fatto di restituzioni non riguardano più i singoli proprietari bensì rapporti fra stati (sto salvando un’opera in nome dell’umanità o la sto sottraendo?), le questioni diventano più sfumate e richiedono un’analisi dei pareri contrastanti.

 

Come il celebre caso dei marmi del Partenone: dovrebbero o meno essere restituiti alla Grecia? Ad Atene, nello splendido museo dell’Acropoli il nuovo allestimento sottolinea il piedistallo vuoto della sesta Cariatide mancante. Un vuoto che fa clamore, in attesa che ritorni a casa dal British Museum. All’inizio dell’800 Lord Elgin portò in Inghilterra circa la metà delle sculture sopravvissute del Partenone prima di venderle al British Museum. L’aristocratico inglese impiegò anche artigiani specializzati per creare calchi in gesso di molte delle opere rimaste in Grecia. Il Guardian ha di recente celebrato come l’analisi di questi calchi abbia rivelato dettagli che con il tempo si sono persi nelle sculture originali. Alla domanda se questo nuovo riconoscimento del valore dei calchi possa ridimensionare le polemiche intorno all’operato di Elgin, Ian Jenkins curatore del dipartimento di antichità greche presso il British Museum ha dichiarato: “Lord Elgin ha salvato le sculture e i calchi del fregio dimostrano il suo grande senso di riverenza per l’antico”.

 

I contrari alla restituzione affermano che se Lord Elgin non avesse portato le sculture a Londra queste sarebbero state distrutte dai turchi o dai veneziani oppure danneggiate dall’inquinamento di Atene. E’ vero che le sculture del Partenone sono accessibili gratuitamente ai sei milioni di visitatori l’anno. Ma anche Atene riceve visitatori, la Grecia non è più sotto l’impero ottomano e non ci sono elementi per pensare che non possa prendersi cura del suo patrimonio.

 

Ma per una legge interna il museo inglese non può smembrare la propria collezione, la restituzione non sembra, in principio, una soluzione possibile. Assistiamo ormai da anni a un dibattito sterile perché privo della volontà di risolvere il caso (magari diplomaticamente, magari pensando a forme collaborative) per poter essere occasionalmente usato in maniera strumentale. Così come avvenne tra l’Italia e l’Etiopia per il caso dell’obelisco di Axum. Le trattative iniziarono nel 1947, a seguito di un documento con il quale l’Italia riconobbe l’indipendenza e la sovranità dell’Etiopia dopo la Seconda guerra mondiale e che stabiliva che l’Italia doveva restituire entro 18 mesi tutte le opere d’arte, gli archivi e gli oggetti di valore. Si discusse ripetutamente in sedi diplomatiche, come sulla stampa e nel dibattito pubblico, tra trattative di facciata, volontà presunte, ripensamenti, promesse non mantenute. Si ritenne perfino che la stele fosse stata donata all’Italia dal clero copto come segno di gratitudine per aver liberato la chiesa etiopica dal Patriarcato di Alessandria d’Egitto. Nessuno era in fondo interessato al monumento, usato all’occorrenza come pedina di scambio politico-economico. La stele partì finalmente per l’Etiopia nel 2005 e fu ricomposta nel 2008, 61 anni dopo il primo accordo ma senza aver veramente messo d’accordo nessuno.

 

Il continente africano presenta numerosi casi di studio interessanti ed è proprio in questi che i pareri si confondono maggiormente con le emozioni, concentrandosi sulle opinioni, meno sulle possibili soluzioni e per nulla sugli oggetti in questione.
Il Jesus College di Cambridge ha deciso di restituire un bronzo del Benin, una statua di un galletto che fu saccheggiata durante la spedizione punitiva britannica a Benin City nel 1897. Thomas, direttore del Museo di archeologia e antropologia di Cambridge, considera la restituzione come una “decisione di principio e progressista”. Ora, anche a seguito di questo annuncio, il Guardian ha lanciando un appello pubblico per mappare la posizione delle sculture sottratte dagli inglesi in occasione del raid dove si stima furono sottratti 3.000 oggetti. Nel frattempo, la Nigeria ha annunciato di voler costruire un museo progettato dall’architetto britannico David Adjaye per ospitare i manufatti che spera di recuperare dalle nazioni occidentali (solo il British Museum contiene circa 900 oggetti provenienti dal Benin).

 

Finora l’esercizio di mappatura non include i molti oggetti del Benin che sono stati venduti dal governo britannico e sono dispersi in Europa e negli Stati Uniti. Il Louvre Abu Dhabi ne ha recentemente acquistato un buon numero, ma si rifiuta di rivelarne la provenienza.

 

Ma proprio questi Bronzi del Benin ci offrono un caso interessante, occupando inchieste giornalistiche, ultima quella del New York Times di pochi giorni fa. Dopo gli annunci bisogna capire quando e come questa restituzione avverrà. L’interlocutore è l’attuale governo della Nigeria, la famiglia reale del Benin, o altri? Nessuno ne è certo tant’è che spesso a seguito di annunci di volontà di restituzione cala il silenzio operativo. I Bronzi del Benin non sono in realtà originari del paese del Benin, provengono dall’antico regno del Benin, ora nel sud della Nigeria. Non sono neanche realizzati in bronzo. I vari manufatti che chiamiamo Bronzi del Benin non sono di bronzo ma di avorio, legno e placche di ottone e venivano usati per ornare il palazzo reale del Benin. La prima ondata di questi straordinari oggetti fu creata nel XIII secolo, l’ottone usato proveniva dai commercianti portoghesi, scambiato con avorio, pepe e schiavi. Le opere che si chiede di restituire sono quindi state fabbricate sulla tratta degli schiavi. Seguendo la logica di correzione dei torti storici, queste opere non sono contaminate da una simile pratica immorale? Forse i discendenti del re del Benin dovrebbero scusarsi per le atrocità della schiavitù, prima di ricevere indietro i Bronzi? A trasformare il passato in un gioco di moralità, dove politici e accademici agiscono come salvatori, si rischia di non mettere più fine alle rivendicazioni. Dopo tutto, come dice Tiffany Jenkins autrice di Keeping Their Marbles (2016, OUP), è facile indire una conferenza stampa e condannare il colonialismo; ciò che è più difficile è affrontare i problemi sociali contemporanei. È importante proteggersi dai sentimenti che inducono pensieri semplicistici giudicando secoli dopo il passato attraverso una logica contemporanea.

 

La Francia ha una storia simile da raccontare e ha fatto un ulteriore passo avanti, ma solo apparentemente. Una vasta collezione di manufatti del Benin, molti dei quali furono sottratti alla fine del XIX secolo, sono conservati nel museo Quai Branly di Parigi. Emmanuel Macron, che ha condannato la colonizzazione come “un crimine contro l’umanità”, per il quale i musei dovrebbero fare ammenda ha annunciato di volere restituire 26 opere. Un anno dopo la dichiarazione, nulla si è ancora mosso.

 

Quando si applica alla storia una visione manicheista, la si appiattisce. E mentre le accuse sui peccati del passato diventano sempre più forti, mentre i musei si politicizzano, si parla sempre meno degli oggetti che sono al centro delle controversie. Il Louvre fu fondato sulla collezione d’arte del re francese prima che il museo venisse conquistato dai rivoluzionari, che giustiziarono il re alla ghigliottina. Si potrebbe dire che i discendenti delle famiglie reali espropriate sono i legittimi proprietari di molti degli oggetti esposti al Louvre. Forse dovrebbero presentare un reclamo.

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