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Sydney e l'assalto agli ebrei: quando l'intifada globale diventa strage
La sparatoria durante Chanukkah in Australia non è un fatto lontano: è il prodotto di un odio normalizzato che l’Occidente continua a sottovalutare
La sparatoria durante l’accensione della chanukkia a Sydney non è solo una tragedia che colpisce la comunità ebraica australiana. È un avvertimento politico e culturale per tutte le democrazie occidentali. Un evento pubblico, religioso, pacifico, trasformato in un massacro. Un rito di luce spezzato dalla violenza. E soprattutto un fatto che arriva dopo mesi di segnali ignorati, minimizzati, giustificati.
Non siamo di fronte a un gesto inspiegabile o a una follia individuale. Sydney racconta il punto di arrivo di un clima che si è fatto via via più tossico: l’idea che l’odio antiebraico possa essere riciclato come militanza politica, che la delegittimazione di Israele possa scivolare senza conseguenze nella demonizzazione degli ebrei, che slogan, piazze e campagne mediatiche aggressive restino innocue. È questo che sempre più spesso viene definito “intifada globale”: non una metafora giornalistica, ma una dinamica reale, fatta di parole che preparano i fatti.
Le parole pronunciate da Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, colpiscono proprio perché rifiutano ogni attenuante. “Attoniti riceviamo le notizie da Sydney”, dice, ma subito chiarisce che allo sgomento si accompagna la rabbia. Rabbia per “i tanti appelli fatti per arginare odio e violenza”, rimasti inascoltati. Rabbia perché “il pericolo è dentro le nostre città”, non ai margini, non altrove.
Di Segni usa una parola che molti evitano: “massacro”. E aggiunge che non si tratta di una fatalità, ma di una responsabilità precisa. Chiama in causa “vertici nazionali e locali assieme a media e stampa selettiva” che hanno assecondato l’odio anti-israeliano ed ebraico, appiattendosi — dice — sulle narrative della propaganda di Hamas e del mondo pro-pal più radicale. È un’accusa dura, ma che intercetta una realtà evidente: quando l’odio viene legittimato nel linguaggio pubblico, quando si tollerano piazze e aule in cui si inneggia al delitto, la violenza smette di essere un tabù.
Sottovalutare l’intifada globale significa proprio questo: pensare che l’odio resti confinato nelle parole, che la radicalizzazione non produca effetti concreti, che l’antisemitismo “nuovo” sia meno pericoloso di quello storico. Ma Sydney dimostra l’opposto. Il passaggio dalla retorica alla pistola non è un salto improvviso: è una continuità. È il risultato di un contesto che ha scelto di spegnere, per usare ancora le parole di Di Segni, “la luce della ragione”.
Da qui l’appello più politico del suo intervento: “Ribadiamo l’urgenza di norme di legge con le quali arginare stragi annunciate e pericoli sottovalutati anche qui in Italia”. Non è una richiesta di censura, ma di responsabilità. Perché la libertà non è neutra rispetto a chi la usa per distruggerla. Difendere le libertà costituzionali non significa consentire che vengano abusate per legittimare l’odio e il terrorismo.
Il passaggio finale è forse il più potente. Nonostante tutto, nonostante Sydney, “stasera accenderemo le luci di Chanukkah nelle nostre case e piazze”. Non per chiudersi, ma per riaffermare una “missione storica e futura”: difendere la vera essenza delle libertà e il diritto del popolo ebraico e di Israele di vivere in pace e sicurezza. È una risposta che non indulge nel vittimismo e non arretra di un passo.
Sydney non è un episodio lontano. È uno specchio. Ignorarlo, ancora una volta, sarebbe la forma più comoda — e più colpevole — di cecità.