Silvana Mangano in Riso amaro, film del 1949 di Giuseppe De Santis

Cosa c'è sotto al divario agricolo italiano

Roberto Defez

Imprenditori anziani, basso utilizzo di tecnologie avanzate, caporalato al sud e gps al nord, ideologia no ogm. Piante e animali non possono parlare ma possono essere capiti con la robotica. Una questione di produttività

“Perché non parli?”, sarebbe stata questa la domanda o l’invocazione proferita da Michelangelo all’indirizzo del suo marmoreo Mosè, tanto bello che gli mancava solo la parola. Altrettanto potrebbe dirsi dell’Agricoltura del Belpaese, che fa prodotti tanto belli che quasi, quasi manca loro solo la parola. Ma si potrebbe anche mutare la stessa frase facendola terminare con un punto esclamativo; ossia l’Agricoltura è zittita, Perché non parli! Altrimenti di cose da dire ne avrebbe troppe, e forse non tutte bucoliche. L’occasione di fare un’analisi dello stato e delle prospettive dell’innovazione in agricoltura deriva da uno studio di Nomisma-Crif che ha tracciato un profilo di ritardi, potenzialità e prospettive dell’agricoltura tricolore sulla soglia di una agricoltura 4.0.

   

Salta subito all’occhio la prima criticità italiana, fatta di troppe aziende, troppo piccole, frammentate, con poderi geometricamente scombinati, gestita da anziani e con scarsa attrattività per le generazioni 4.0 o comunque iperconnesse. Per paragone basti pensare che il 4 per cento delle aziende italiane ha una dimensione media, ossia oltre i 50 ettari: in Francia il 41 per cento delle aziende agricole coltiva più di 50 ettari. In Germania l’8 per cento dei proprietari di aziende agricole ha più di 65 anni, in Italia il 41 per cento ha più di 65 anni. Tutto quello che ne consegue è la logica conseguenza di un nanismo che, accoppiato ad un mancato ricambio delle generazioni, ostacola lo sviluppo della nostra agricoltura. Nonostante gli enormi passi avanti fatti sui piani della meccanizzazione delle lavorazioni del terreno, raccolta meccanizzata e gestione professionale della crescita e maturazione delle piante, ancora tantissimo deve essere fatto per cercare di tenere al passo la nostra agricoltura con quelle continentali.

   

Un solo dato vale più di mille esempi: l’Italia esporta prodotti agricoli per 40,3 miliardi di euro, l’Olanda ne esporta per 89 miliardi di euro. Questo significa che abbiamo un problema monumentale.

  

   

Tra l’altro sul ginocchio del Mosè non vi è traccia dell’ipotetica martellata. Al massimo si nota una venatura del marmo. E proprio tramite le venature, anzi tramite le vene delle piante ossia i vasi xilematici e floematici, Michela Janni del Cnr di Parma, cerca di fare parlare le piante. Quali sarebbero le prime cose che una pianta ci direbbe se potesse parlarci? “Ho sete, ho fame, ho sonno!”. Tutte queste esigenze fisiologiche minime delle piante possono essere percepite e misurate tramite dei sensori che vengono messi “sottopelle” alle piante. Si tratta di transistor con due fili, uno di cotone rivestito da un polimero buon conduttore elettrico ed un secondo fatto di platino o di argento che genera un campo elettrico. Le piante non si accorgono quasi di questo sistema di monitoraggio che funziona 24 ore su 24 e “parlano” con un computer che registra le principali funzioni vitali vegetali. Immaginate che la pianta (per esempio di pomodoro o di vite) abbia sete: in automatico sarebbe possibile accendere l’impianto d’irrigazione e dare la minima quantità d’acqua a quella zona di campo più disidratata. Altre piante stanno crescendo rapidamente ed hanno più fame? I sensori sentono il loro grido e somministrano la quantità minima dei fertilizzanti necessari. In questo modo le piante possono parlarci e manifestare le loro esigenze. Noi risparmieremo acqua, fertilizzanti e permetteremo a tutte di crescere in maniera equilibrata.

   

Lo stesso dicasi per i droni che possono volare sui campi per segnalarci da quale angolo del campo arrivano parassiti o infezioni, consentendoci di concentrare nelle sole zone colpite tutti gli interventi a difesa delle piante coltivate. Anche la robotica ha fatto passi da gigante. Alla Scuola Superiore S. Anna di Pisa il settore della robotica è avanzatissimo, mancano solo le commesse da parte delle aziende italiane troppo piccole, troppo timide, troppo poco informatizzate o troppo legate a vecchie modalità di raccolta e coltivazione. Alessando Leogrande in “Uomini e Caporali” (Mondadori, 2008) racconta degli storici ritardi della sua Puglia, del caporalato e di come abbiamo ridotto in schiavitù prima i migranti da sud e da est ed infine i migranti che attiravamo dagli stessi paesi dell’Unione europea. La raccolta del pomodoro in Puglia o in Campania o delle clementine in Calabria, le abbiamo fatte fare a esseri umani ridotti in schiavitù per pochi euro al giorno, spesso meno di dieci euro, facendoli lavorare dall’alba al tramonto. Allo stesso tempo il sud del paese ha drasticamente ridotto gli acquisti di macchine agricole e quindi tutte le raccolte di prodotti agricoli sono state fatte col lavoro manuale in condizioni disumane. Tutto questo mentre da vent’anni in Friuli per piantare un vigneto si usano trattori guidati da Gps anche senza una guida umana e questo consente di piantare le barbatelle di vite ad una distanza predeterminata e regolare, tracciando linee perfettamente rettilinee che migliorano l’efficienza della coltivazione. Anche la raccolta meccanizzata delle uve è un salto tecnologico, ma anche qualitativo. Un trattore che raccoglie in maniera meccanizzata le uve, lo farà meglio di notte, con le pigne d’uva fresche, che arrivano in cantina più fredde che se si facesse la raccolta sotto il sole e questo consente di regolare meglio la fermentazione e evitare che si alzi troppo la temperatura facendo morire parte dei lieviti. Ecco come si coniugano meccanizzazione e qualità vera.

  

Noi invece troppo spesso parliamo di qualità, ma senza fornire i parametri su cui misurare questa qualità. Abbiamo ingabbiato le migliori nostre produzioni tipiche, quelle dei grandi Consorzi di tutela, in camice di forza che ne impediscono la crescita, lo sviluppo delle qualità organolettiche e nutrizionali. Per esempio, se cent’anni fa poteva avere un senso pretendere che l’origine dei foraggi per alimentare le vacche in lattazione fosse esclusivo di particolari aree della pianura padana, ora questo obbligo suona come un capestro. Non tiene conto che intanto sono nate strade e autostrade, che l’antropizzazione, lo sviluppo industriale e le condizioni climatiche giocano tutte contro il mito dei foraggi a chilometro zero. Quanto sarebbe più vantaggioso, per le nostre aziende più prestigiose se potessero usare i foraggi migliori, più sani, più profumati, più nutrienti, invece che essere costrette a usare quelle che fiancheggiano strade percorse dai Tir. E chissà come sarebbero felici le vacche, se solo potessero parlare. Ma la robotica applicata all’agricoltura oramai serve anche per vedere quale sia il frutto più maturo e raccoglierlo tagliando lo stelo. Si fa per le fragole, si potrebbe fare per tante coltivazioni.

   

Ma se si risale a piedi lo scalone centrale del ministero dell’Agricoltura, i quadri appesi alle pareti ci parlano di altri tempi, di altri agricoltori e di altri dolori. Uno dei quadri è una foto di povere mondine senza nessuna sensualità (se mai qualcuno avesse in mente Silvana Mangano nel film “Riso amaro”, 1949) che pestano un campo fangoso a piedi nudi immerse nella melma fino al ginocchio. Stanno compattando il terreno per poi piantare il riso: a piedi, con la sola pressione del loro corpo tozzo e invecchiato precocemente. Ma molte piante di riso soffrono se sono sommerse dall’acqua perché le piante affogano per mancanza d’ossigeno. Questo è un problema che con le piogge torrenziali, conseguenza dei cambiamenti climatici in corso è diventato una criticità sempre più frequente. Il Rettore del S. Anna Pierdomenico Perata studia proprio questo fenomeno, per capire come aiutare le piante a sopravvivere con poco ossigeno. Lo fa usando la genetica e la genomica. Per fortuna non gli si chiede ancora di aprire le acque come Mosè per far transitare gli agricoltori italiani verso una terra promessa dove la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica siano messe al centro dello sviluppo dell’agricoltura. Ma certo, se quelle piante ci potessero parlare, ne avrebbero di cose da dirci.

    

Roberto Defez è ricercatore Cnr, Consiglio nazionale delle ricerche