Che infanzia nebbiosa e forte a Lugo di Romagna. Sembra un'età adulta

Giacomo Giossi

L’esordio editoriale di Silvia Calderoni, tra le più rilevanti performer contemporanee, è un romanzo che si finge autobiografia. "Denti di latte" è il ricordo del movimento che fu, interiore ed esteriore, la storia di un corpo rivisto e reimmaginato ad anni di distanza. Qui il mondo del sonno si intreccia con quello dell’immaginazione

Il corpo prima di tutto: un braccio che si tende, una mano che afferra e poi seguono gli occhi il cui sguardo descrive, come in un lungo piano sequenza, gli oggetti nella stanza. L’esordio di Silvia Calderoni è un romanzo che si finge autobiografia: un’invenzione della memoria che ripercorre luoghi – Lugo di Romagna il paese dell’infanzia – e persone reali. Denti di latte (Fandango) si apre quasi come una citazione da Un uomo che dorme di Georges Perec, una stanza e un risveglio indolente. Il mondo del sonno che si intreccia con quello dell’immaginazione, e poi la presenza ossessiva degli oggetti quotidiani che alternano nell’animo della protagonista rassicurazione a moti di repulsione e ribellione. Tra le più rilevanti performer della scena contemporanea, Silvia Calderoni ha scritto un romanzo che vive radicalmente nel movimento. Quindi non un’autobiografia, come già l’autrice avverte in esergo, ma il ricordo del movimento che fu, sia interiore sia esteriore, la storia di un corpo rivisto e reimmaginato ad anni di distanza. 


Non esistono tempi stabili, così come non esiste una memoria aderente alla realtà, ma solo la consapevolezza di uno stato di passaggio continuo, quello tra il reale e il sogno, di cui la memoria diviene estrema sintesi: “Sono ferma ai piedi del letto e ruoto lentamente su me stessa, come una lancetta. Piano inizio a intercettare con lo sguardo ante e cassetti: so esattamente cosa contengono”.

 
Un corpo fluttuante che sfiora e poi tocca, che osserva e si avvicina, mentre attorno tutto sembra muoversi con ancor più lentezza, segno di una distanza e di un distacco comunque incolmabili. Lo scorrere del tempo indica infatti una quotidianità perenne che contrasta con l’esplorazione assidua e continua che compie Silvia, la protagonista. Un’indagine che attraversa il suo corpo da dentro verso l’esterno, capace d’intercettare anche le più piccole variazioni: “Sento l’odore di lei, e io non conosco odore più buono. Rimango immobile e silenziosa, in coro con il silenzio della casa. All’improvviso e senza un motivo chiudo gli occhi e mi sfilo dal bozzo come un serpentello che cambia pelle”.

 
Tra le pagine traspare una solitudine lieta, un necessario bisogno di prendere le distanze dalle cose e dalle persone per metterle a fuoco. 

 
Gli avvenimenti giungono attutiti, lontani dal caos rumoroso di una vita che le pagine riescono a restituire pienamente nel suo divenire interiore. Denti di latte racconta la fatica, ma anche l’arguzia del crescere: prendere le distanze dai genitori - sempre nominati con un “lui” e un “lei”-, ma anche il brivido di accorciare quelle verso il resto del mondo. Il tatto è così l’elemento che assegna all’universo una misura emotiva quanto effettiva. Una narrativa dell’esistere con l’altro che riporta alla mente Jacques Derrida: “Un sentimento che ci insegna e ci assegna quanto alla sensibilità, al sentimento, al sentire, al toccarsi (…) e anche al senso del senso e al senso del mondo”. 

 
Silvia libera da ogni oggetto un senso, una possibilità altra e al tempo stesso unica, in una relazione che pretende di volta in volta prioritaria. Il libro esprime la forza immaginativa dell’infanzia superando l’avvertita misura di un’età adulta che diviene così sempre più estranea. Silvia cresce nel mondo per non perdere la misura di un’infanzia che le permette di aderire agli oggetti e agli altri con uno slancio sentimentale potentissimo come delicatamente commovente. Tra apparizioni e visioni Silvia Calderoni ridisegna una personalissima nebbia emiliano romagnola che ha le sue origini in un’infanzia passata, forse mai esistita, ma che lei sa raccontare con la meraviglia propria di chi l’ha vissuta pienamente.