Foto di Jean Carlo Emer su Unsplash  

Il figlio

Cenzina insorge. La rivolta di Napoli durante la guerra e di una ragazza che diventa donna

Fuani Marino

La storia di insurrezione, non solo storica ma anche personale, della giovane Cenzina che si trova a subire scelte non sue: dall’allontanamento da casa e da sua madre al matrimonio combinato

E’ una storia di insurrezione, non solo storica ma anche personale, quella che si dipana fra le pagine di La guerra non torna di notte, il romanzo di Vincenza Alfano pubblicato da Solferino nella collana Affreschi. La storia è un affresco, appunto, di quanto accade alla protagonista Cenzina durante le quattro giornate che servirono a Napoli a liberare sé stessa. Il racconto della rivolta che portò il popolo napoletano a liberare la città dalle truppe tedesche durante il secondo conflitto mondiale funge da sfondo in un climax dove ciò che accade fuori, all’esterno, e quanto si trova nell’intimo di una ragazza che diventa donna, sembra convergere.

Siamo nel 1943, i bombardamenti infuriano sulla città, a Napoli come altrove. In particolare nel centro storico, dove la giovane Cenzina – e che la protagonista porti lo stesso nome dell’autrice non è casuale – vive col marito e le figlie, ragion per cui è necessario trasferirsi, non in un paese come molti fanno ma al largo Sermoneta, fra Mergellina e Posillipo, a un passo dal mare. “Ma nella realtà il mare non è dappertutto. Diserta i vicoli e le periferie. Prende le distanze dalle alture della collina. Lambisce soltanto la linea morbida del litorale lungo la costa del golfo. Il mare non tradisce, il mare accoglie (…)”. E’ una storia familiare che sa di antico, non solo per l’ambientazione storica della vicenda ma anche per la lingua mite che la racconta, mai eccessiva e sempre misurata.

Cenzina ci racconta la sua storia in prima persona, e come accade spesso alle ragazze si trova a subire delle scelte non sue: prima l’allontanamento da casa e dalla madre che l’affida a uno zio per garantirle una vita migliore, poi il matrimonio combinato. Così l’amato pianoforte, uno Steinberg a coda che aveva imparato a suonare grazie allo zio facoltoso con cui vive, col tempo diventa “uno strumento di tortura, un oggetto di arredo inutile ridotto al silenzio”. Una volta data in sposa dallo zio Bernardino al ricco pasticciere, le ambizioni andranno infatti sopite, e una volta abbandonata ogni possibilità di carriera e di essere qualcosa di diverso da una moglie e una madre, l’insoddisfazione non si fa attendere. I versanti, quindi, sono due: la distruzione che impazza fuori: “da tre anni infuriava la terribile guerra che arrivava dentro le case e spezzava muri e travi, facendo crollare i palazzi”. E la sensazione di sgretolarsi dentro. La protagonista si sente “una somma di detriti”, colpa dell’abbandono materno.

Alfano scrive: “Il peso che covavo dentro mi rendeva disumana. Dal rancore verso mia madre avevano origine malesseri fisici, che sopportavo in silenzio per scontare la pena del mio disamore per lei. Ma di quel dolore non conoscevo con esattezza i contorni, era troppo sbiadita la mappa dei miei sentimenti. Mi perdevo quando cercavo di analizzarne le radici. C’era stato un tempo in cui avevo provato a ricompormi. Ottenere un’assoluzione. Diradare le ombre (…)”. Ma se la guerra non torna di notte, i fantasmi sì. E così la madre chiamata per nome, in segno della distanza che le separa, torna e ritorna fra le pagine, come causa di tutto. “Con Immacolata era andata diversamente, mi aveva convinta di essere sbagliata, inculcandomi un senso di incompiutezza e imperfezione che continuavo a trascinarmi dietro”. E poi le notti di tormento, e la fame che arriva per tutti, solo un po’ più tardi per nobili e ricchi, i rastrellamenti e le sirene in piena notte. Fino alla rivolta, in quei quattro giorni di pioggia nel mese di settembre: “Non ero un’eroina, ma ero pronta a combattere. Mi sentivo padrona di una mia scelta per la prima volta. Libera. Cercavo un riscatto da tutte le paure che mi avevano addomesticata. Mi misi tra le donne alle barricate, ci passavamo cesti pieni di granate per armare la lotta degli uomini. Nessuno di noi aveva scelto di uccidere. Nessuno di noi voleva morire. Ma uccidevamo e morivamo”. 
La guerra finirà e Napoli sarà libera, mentre il futuro di Cenzina possiamo solo intravederlo in filigrana.

Di più su questi argomenti: