Foto Ansa 

il figlio 

L'immagine: un bambino cammina accanto ai cadaveri nel 1945

Giacomo Giossi

Assistiamo quotidianamente a scene di guerra. Un caso di studio su una fotografia del reporter George Rodger pubblicata su Life poco dopo la Liberazione 

Assistiamo quotidianamente a immagini di guerra. Una guerra che definisce anche un confine tra adulti e bambini, tra i corpi dei padri e delle madri e quelli dei figli. Se generalmente il corpo maschile è quello mutilato e quello femminile è quello abusato, quello dei figli rappresenta invece il corpo invaso e segnato al di là della vita e della morte. L’infanzia in guerra può infatti esistere solo come forma di resistenza. Una fatica interiore e traumatica che azzera la leggerezza e l’essenza dell’infanzia stessa, lasciando ferite perenni nel cuore e nell’anima. La Seconda guerra mondiale rappresenta il primo conflitto fortemente documentato e fotografato, in cui la presenza dei bambini ha assunto aspetti iconici importanti. Corpi vivi, a fianco a corpi morti.


Parte proprio da una foto che ritrae un bambino che passeggia a fianco di cataste di morti l’analisi di Werner Sollors, già professore di letteratura all’Università di Harvard. Un bambino a Bergen-Belsen è al centro di uno studio che è una vera e propria indagine sulla memoria e il significato delle immagini. L’immagine presa in analisi è una fotografia del reporter George Rodger pubblicata nel maggio del 1945 su Life. La fotografia mostra un bambino che cammina velocemente (lo si intuisce dal braccio sfuocato) a fianco di una lunga fila di cadaveri accatastati sul bordo della strada: siamo al campo di Bergen-Belsen poco dopo la Liberazione. 


Il bambino con il capo leggermente piegato a destra distoglie lo sguardo dai morti. Nel 1945 molti giornali e riviste, soprattutto negli Stati Uniti, pubblicavano giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, immagini dalla tragedia europea. Tra i lettori di questi giornali c’era anche la dodicenne Susan Sontag, come riporta lei stessa nel suo saggio Sulla fotografia. Probabilmente le capitò sotto agli occhi anche lo scatto di George Rodger, Sontag scrive: “Quando guardai quelle fotografie, qualcosa si spezzò”. Risulta così facile vedere connessi il piccolo bambino ebreo olandese di cui Sollors racconta con puntualità la vicenda, e la giovane Susan Sontag. Due storie lontane, due orizzonti agli antipodi, ma uniti in uno stato che non contempla sconfitta e vittoria, ma solo il trauma di chi è sopravvissuto. 


Sieg Maandag, questo il nome del bambino, perse il padre nei campi di sterminio, solo  molto tempo dopo e proprio grazie alla foto di Rodger attraverso cui fu riconosciuto da uno zio, potè insieme alla sorella maggiore riabbracciare la madre, sopravvissuta. Il trauma però non si esaurì mai albergando per anni in incubi terribili che segnarono l’esistenza di Sieg Maandag. Inizialmente lavorò (come il padre) come tagliatore di diamanti, mestiere che abbandonò per viaggiare nel mondo, conobbe una giovane donna americana, Karen Ralph, che fu  la compagna della sua vita. Sieg divenne pittore, un arte che cura traumi, ripeteva spesso riprendendo l’affermazione di Picasso. Un bambino a Bergen-Belsen è l’analisi di una foto, di un’epoca storica e del senso della guerra e dei suoi traumi. Una lettura che legge i segni dell’immagine come quelli della memoria, partendo dal corpo esile di un bambino immerso nella più grande tragedia del secolo scorso.

 

La guerra è una forma di inaudita irresponsabilità verso i figli, una tragedia che si palesa nel presente, ma i cui effetti mutano radicalmente la vita futura. Il capo chinato a destra del piccolo Sieg che rifiuta la morte così come quello della giovane Sontag sono entrambi il riconoscimento di un dolore impossibile da ridurre. Sintesi di un male causato dai padri contro i figli, a cui la morte e la sua successiva raffigurazione non offrono alcuna salvezza possibile. 

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