Il figlio

In vacanza nei boschi con le figlie, per capire qualcosa della vita e della scrittura

Giacomo Giossi

Campo di pietra, il romanzo di Tove Jansson, una delle più importanti scrittrici finlandesi, è un libro vergato di ironia che coglie l’essenza dell’essere padri e scrittori in un corpo solo

Scrivere per lavoro significa trasformare le parole in oggetti che pretendono significati sempre più precisi. In caso contrario la pena è che la loro naturale e disinvolta leggerezza si trasformi in una pesantezza insostenibile e a tratti perfino letale. E proprio questo appesantimento e perdita di senso lessicale è quello che accade a Jonas, il giornalista protagonista di Campo di pietra (Iperborea, tradotto in italiano da Carmen Giorgetti Cima) romanzo di Tove Jansson, una delle più importanti scrittrici finlandesi. Jonas di professione fa il giornalista (e non lo scrittore) differenza non da poco, perché se uno scrittore tende a levigare e a plasmare le parole, un giornalista e in particolare Jonas, tende ad abusarne, a straziarle e a gettarle via a seconda dell’effetto istantaneo che gli è utile o dell’emozione da evidenziare.
Solo che poi succede che come fantasmi provenienti da vite lontane, le parole tornano, tormentano e rivelano a quel punto anche la loro ormai totale inefficienza, incapaci di non dire più alcunché. 


Ormai deformate e schiacciate, le parole non possono infatti più esprimere il significato che contenevano e divengono solo ostili ricordi, veri e propri incubi con cui Jonas è costretto a fare i conti. Perché Jonas ha accettato di scrivere la biografia di uno dei più potenti tycoon finlandesi, un uomo ricchissimo e chiaramente influente che ha costruito un vero e proprio impero nei media. Ma le parole si rifiutano di agire e il testo tarda a chiudersi, e anzi rivela giorno dopo giorno con la sua freddezza, la fatica e l’angoscia di un uomo che per troppo tempo ha dimenticato di fare i conti con la propria esistenza. Attorno a Jonas si palesano figure femminili quasi angeliche, tutte votate alla sua protezione e cura: dall’editrice alle figlie. Maria e Karin portano allora il padre in campagna, provano a farlo riposare, mentre lui le osserva sospettoso e confuso dai ricordi. Rivede davanti a sé la moglie scomparsa anni prima e da lui abbandonata per una nuova compagna. 


Sembra non esserci tregua possibile nella vita di Jonas, ma al tempo stesso la sua inettitudine affettiva non è più giustificabile, qualcosa nella sua vita deve cambiare prima che sia troppo tardi. Le parole infatti quando vengono sperperate creano disaffezione e generano un muro invisibile che diviene arduo scavalcare. Una lontananza tra sé e gli altri anche di poco conto, ma evidentemente incolmabile. 

Jonas viaggia come sospeso in un’inquietante trance dentro alle parole, tenta di recuperare il senso ricercandole nella memoria e nella sua vita. Sullo sfondo si palesa il mestiere di giornalista con i suoi inseguimenti e le sue colpevoli mancanze. Ritrovare le parole è un percorso lungo e complesso, significa prima di tutto ritrovare le sue figlie, e non dove le ha sempre immaginate, ma dove realmente vivono e sono cresciute. 

 

Maria e Karin hanno faticosamente accettato per anni con sardonica pazienza i silenzi del padre. Hanno vissuto sere di parole smozzicate, sterili residui di giornate lontane, ma ora è lui che sembra annegare in quel silenzio da cui fatica a uscire. Il lavoro sulla biografia del tycoon diviene così un vero e proprio specchio dentro al quale rivedere se stesso e intraprendere un lungo percorso di riconoscimento: di ciò che è e non di ciò che dice di essere. Jonas si mimetizza per rivelare le proprie ossessioni e rendere esplicito il proprio lavoro di scrittore. 
La scrittura diviene lo strumento fondamentale e unico per dare presenza a sé stesso, e al suo essere padre, marito e amante. Un libro vergato di ironia che coglie l’essenza dell’essere padri e scrittori in un corpo solo.

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