Il Figlio

Una domenica di festa di cinquant'anni fa. La nuvola che ha salvato Larsson

Giacomo Giossi

Una barca si rovescia in mare e strappa sei padri alle rispettive famiglie. L'incidente colpisce un villaggio di tremila anime in Svezia. Molti anni dopo uno di quei figli, diventato nel frattempo un'importante romanziere, da padre fa i conti con la figura paterna

E’ una domenica di festa, schiamazzi e urla si rincorrono attorno al lago Nedre Vatter. Famiglie con bambini stanno trascorrendo il pomeriggio, c’è una gara di pesca. Siamo in Svezia negli anni Sessanta, per la precisione è il 27 agosto del 1961. L’estate sembra sciogliersi e sintetizzarsi in questa ultima domenica di agosto. 


Bernt Larsson è un elettricista, padre di due figli. Come spesso gli accade nei giorni di festa ha forse alzato troppo il gomito, gli piace bere e alle volte esagera, anche oggi sembra averlo fatto. Al figlio Björn non piace quando suo padre beve troppo: non è per l’odore del suo alito, ma per il suo sguardo che cambia. E’ come se sulla fronte di Bernt comparisse una riga scura o forse meglio, una nuvola grigia. L’espressione annebbiata del padre spaventa il piccolo Björn, lo inquieta, gli pare infatti che quell’ombra possa portare solo a brutte cose. 


Björn ha otto anni e quel giorno la sua vita cambierà per sempre. Quel 27 agosto del 1961 Björn si rifiuterà di salire sulla barca con suo padre e altri cinque uomini e due bambini. Sarà l’ultima volta che vedrà suo padre, lo sguardo annebbiato e confuso sarà l’ultimo sguardo di suo padre rivolto a lui. 


A notte fonda si saprà che la barca si è capovolta e tutti passeggeri sono dispersi, o meglio morti. La tragedia colpisce tutto il villaggio di sole tremila anime, tutti sono sconvolti e distrutti dal dolore. Scorrono lacrime per giorni, le lacrime di un paese che piange sei padri di famiglia e due bambini. Tutti piangono tranne lui, Björn. 


Il piccolo Björn non piange, non ci riesce, forse per lo shock o forse perché il dolore è così forte da farlo sembrare quasi indifferente. Non solo, Björn ammette di provare un leggero sollievo. Forse perché sa di essersi salvato? Questa domanda se la pone Björn stesso più di cinquant’anni dopo con Nel nome del figlio pubblicato da Iperborea e tradotto splendidamente da Alessandra Scali. 


Il libro costringe Larsson a fare i conti con il passato, forse anche spinto dall’essere diventato lui stesso padre di una figlia, Larsson affronta l’enorme vuoto attorno al quale ha tentato di costruire la propria fortezza di difesa e apre una alla volta tutte le porte dietro le quali negli anni ha chiuso il proprio passato. Si sciolgono nella sua mente i ricordi radi eppure vividi del padre e si mischiano con i pensieri sull’essere figli e sul diventare orfani. 


Orfani lo si è perché lo si dice, ma figli si è per sempre, non esiste un essere stati figli. E’ un legame che trasforma anche il più labile ricordo in una radice profonda. Larsson affronta il dolore di una mancanza che diviene pagina dopo pagina sempre più dolorosa e assurda e lo fa sostenendosi le distrazioni, le divagazioni. Uscite di pista alimentate da filosofia e letteratura, da scienza e fame di futuro e di vita. Le divagazioni arricchiscono Nel nome del figlio di una forza che non è quella del raggiungimento del centro delle cose, ma della loro accettazione. Capire non è sapere come sono andate le cose, ma provare ad immaginarle. Per farlo è necessario però darsi un futuro, inseguire la propria voglia di libertà contro ogni conformismo. Come ad esempio fuggire subito dal gratuito dolore degli altri e correre via, come ha fatto Björn Larsson, da chi lo condannava già bambino ad una vita di terribile tristezza. Non erano persone realmente affettuose, ma solo dotate di scarsa immaginazione. 


Nel nome del figlio è come un diario di lavoro, la messa in costruzione di un romanzo che ha per protagonista la storia di un padre. Un padre inventato, ma che resta l’unico padre possibile e reale. Larsson si dà il ruolo di narratore che scrive di un “figlio” alla ricerca della storia del “padre”. Riflette guardandosi da fuori e racconta di suo padre, con fiducia nella propria immaginazione.

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