Elaborazione grafica di Francesco Stati

Il Figlio

Appunti sul dolore

Giacomo Giossi

Chimamanda Ngozi Adichie e la morte di suo padre in pandemia

Quando un padre muore prende forma un catalogo, un vero e proprio libro delle istruzioni. Le istruzioni in un certo senso sostituiscono chi non c’è più. Appunti sul dolore (traduzione bellissima di Susanna Basso, appena uscito per Einaudi) è il catalogo con cui Chimamanda Ngozi Adichie dà addio a suo padre. Appunti sul dolore non è un saggio e non è un testo narrativo, per certi versi ricorda gli eserciziari delle vacanze, compiti che da ragazzi nessuno ha mai voglia di fare e il cui esito assume sempre una forma imprevista e non controllabile. Del resto, è il massimo che si può fare, contro voglia e sbuffando, mentre si perde una giornata di sole in spiaggia con gli amici dell’estate o, come in questo caso, soffrendo infinitamente fino al punto di conficcare un dolore imprevisto (come lo sono sempre i dolori) fin dentro le proprie viscere per tutta la propria futura esistenza.

 

La prima cosa è il corpo: non è infatti la mente che viene a conoscenza del lutto, ma il corpo. Il dolore piega e contorce, fa piangere fino allo sfinimento. Tutti i muscoli, da quelli del viso fino a quelli delle gambe e delle braccia, producono male. Il dolore sa far male a tutto il corpo, non c’è scampo. La seconda cosa è la distanza. La distanza è una forma di lutto inedita, ma lo è nella misura in cui tutto in una morte è inedito e sempre nuovo. Il padre dell’autrice muore lontano dalla figlia durante il pieno della pandemia, a giugno, in quello che sarà il giorno più brutto della vita di Chimamanda Ngozi Adichie. E se la mente non capisce, allora spetta ancora una volta al corpo comprenderlo. E al suo urlo, al suo strazio iniziare a formulare un ricordo. Durante la pandemia e il lockdown è stato impossibile celebrare il lutto con gli occhi e con il tatto. E’ stato impossibile stare vicini. Tutto ciò ha reso la distanza di una misura così tanto impossibile da percepire da essere azzerata per la sua stessa irrealtà. II problema non era essere lontani, vedere in piccolo, ma essersi ritrovati con uno sguardo distorto. E’ stato come vivere non solo la morte del proprio padre, ma quella di tutti i padri. Un’esperienza mai vissuta non è semplicemente un’esperienza nuova, ma è qualcosa che si avvicina all’inumano. Qualcosa che rende il dolore ancora maggiore, ancora più insopportabile. Ogni figlio vive l’ansia della morte dei genitori e ogni figlio trova o cerca una strategia per sfuggirla, Kane - il fratello di Adichie - le diceva: “Ero certo che papà avesse la stoffa del novantenne”.

 

E così arriva un terzo appunto, forse il più inaspettato: il sollievo. La morte porta sollievo ai vivi perché la consapevolezza della mortalità che ci portiamo appresso come un mantello tutta la vita finalmente si palesa. Si fatica a chiamarlo sollievo, ma questo è. Ma è spesso un sollievo che, come avverte Chimamanda Ngozi Adichie, non ci rende meno apprensivi, ma solo più furiosi. Più insofferenti verso gli altri, verso la quotidianità e verso una vita che è diventata già un’altra senza che lo volessimo. Un tipo di sollievo che trasforma il dolore in rabbia, e solo le lacrime possono venire in soccorso. Così come il dolore, prende forma anche l’affetto. L’amore verso il padre di Adichie si palesa negli oggetti e nei ricordi. Tutto assume uno spazio e un peso, un ordine e una misura chiara. Ed è a quel punto che il dolore si trasforma in lucidità e che i ricordi diventano tracce utili per il presente. Le immagini del passato sbucano dalla mente: il tono di voce del padre compare all’improvviso. Si cercano vecchie fotografie, si sfiorano gli abiti, reduci di un corpo che non ne ha più bisogno. Gli occhi guardano in modo diverso e in modo diverso dialogano con la memoria. Adichie ha scritto un libro piccolo e potente che offre voce limpida al dolore di tutti e che trasforma la morte del padre nel racconto della sua stessa vita.

 

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