Io sono tua

Simonetta Sciandivasci

E’ giusto fabbricare figli? La nostra libertà, e la tracotanza, sono sparite in un attimo

“Io sono mia” suona stupendamente, da molti anni è uno strillo affascinante e ambizioso, una prospettiva di libertà assoluta, e quindi anche di responsabilità assoluta, un’ambizione regale. Però, non sono mai stata in grado di convincermene fino in fondo, di pensare che l’autodeterminazione sia principio unico e sufficiente per scegliere e agire. Non mi ha mai entusiasmata l’idea che una donna affitti l’utero di un’altra per diventare madre, ma mi sono anche sempre detta che il corpo è sopravvalutato, e se c’è un modo di difendersi dalla sua prigionia, dal fatto che ci rende mortali, vulnerabili, allergici, macellabili dalle lame come dai virus, quel modo è usare il corpo come un aggeggio utile, desacralizzarlo, sfruttarlo a ognuno come gli va. Ho dibattuto, litigato, guerreggiato, oscillato con molte amiche, colleghe, estranee, fino ad arrendermi, fino a dirmi: non posso capire, parli chi può, decida chi può, io aspetto, taccio, va bene che sono mia, ma vorrei essere anche di qualcun altro, di una legge, di un ordine, di un sistema giusto, di una eterogenesi dei fini. Ho letto “La Fabbrica” di Joanne Ramos, sulla cui copertina c’è scritto che è il nuovo “Racconto dell’ancella”, e mi sono trovata a rivedere tutto di nuovo, perché il mondo s’è ammalato di colpo di un virus che, di fatto, dimostra che io non sono mia, tu non sei tua, lui non è suo, tutti siamo degli altri, e quello che facciamo del nostro corpo, con il nostro corpo, a cominciare dall’accarezzare chi amiamo, ha delle conseguenze sugli altri, vicini e lontani, amici o estranei, amati o odiati.

 

“La Fabbrica” è un romanzo sia distopico che realista, come certe puntate di “Black Mirror” che quando vengono trasmesse raccontano qualcosa che s’è già avverato, perché il futuro è precoce e velocissimo, o che abbiamo scampato, perché il futuro è imprevedibile e, ogni tanto, migliore delle nostre previsioni. Racconta qualcosa che già c’è, peggiorandolo. Siamo in una clinica di donne, le Ospiti, pagate per partorire i figli delle altre, le Clienti. Siamo negli Stati Uniti di adesso, tra i più classisti di sempre, e per molte Ospiti far figli per i ricchi è la sola possibilità di essere libere e svincolarsi da povertà, segregazione e famiglie grette. Hanno tutte ragionati motivi per fare quello che fanno, ma il romanzo non sta lì, né nelle ragioni di chi si serve di loro – le Clienti, per tenere sotto controllo la vita, la sola cosa che non è possibile tenere sotto controllo se non esercitando una prepotenza che prima o poi mostrerà il conto; la Clinica, per conquistarsi il titolo di fabbrica di bambini che cambieranno il mondo.

 

Il romanzo sta nel nodo che rappresenta. Questo: i mezzi che ci rendono liberi finiscono con il renderci schiavi. Nel caso delle ragazze della fabbrica, quei mezzi sono i soldi. Quando ha scritto il libro, Ramos non poteva immaginare che una polmonite avrebbe bloccato il mondo e costretto tutti a ripensare la prossimità, il contatto, l’assetto sociale, la libertà di movimento, e quindi la libertà in assoluto. Due mesi fa questo libro avrebbe detto qualcosa a chi si interroga su quanto giusto sia prevaricare la natura, se l’utero in affitto e il controllo che esercitiamo sulla maternità non siano pratiche di una nuova eugenetica, se i neonati non rischiano di diventare merce di scambio. A leggerla adesso, mentre per vedere il mondo non si può che affacciarsi su un cortile e guardare la tv, questa storia ci dice la stessa cosa che sta dicendoci il virus: la libertà umana, se trasgredisce le leggi della natura, fallisce. Dovremo, non appena tutto sarà passato, che non significa che sarà finito, domandarci se ci convenga regolarci di conseguenza oppure no, se siamo connessi o sottomessi e se, tra le due condizioni, esiste un margine di scelta che possiamo esercitare senza pagare un prezzo odioso. Non avevamo messo in conto che la battaglia ambientale avrebbe incrociato quella a favore o contro la manipolazione della maternità, né che a farle incontrare sarebbe stato un morbo che ci punisce di ogni abuso, di ogni tracotanza.

 

“Gli americani amano il successo quando riescono a entrarci in relazione” scrive Ramos. Cosa abbiamo sacrificato per quella relazione? Domani, nel post coronavirus, quando degli altri diffideremo più di adesso, e far figli robusti e invincibili ci sembrerà forse il solo antidoto possibile alla vulnerabilità nella quale siamo sprofondati, dovremo forse capire, con la stessa veloce brutalità con cui questo virus ha stravolto tutto, che “Non siamo noi che abbiamo fatto il cielo”, e neanche la terra, e prima di manometterla dovremo sentirci suoi, sue. Dirci assai spesso “io sono tua”.

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