La copertina dell'ultimo libro di Alberto Simone "Ogni giorno un miracolo"

L'interurbana

Alberto Simone

Figli miei, voi andate veloci nel futuro. Ma le telefonate dopo le dieci di sera sono perle nel cuore

Cari figli, prima di scrivervi questa lettera ricordo a me stesso le parole del filosofo libanese Kahlil Gibran, che in una sua celebre poesia oltre che avvertirmi del fatto che non siete figli miei ma della forza stessa della vita, mi ricorda che la vostra casa è in un avvenire che io non potrò visitare nemmeno nei sogni. Mio malgrado devo riconoscere che le sue parole, scritte oltre un secolo fa, per quanto difficili da accettare per qualunque genitore, appaiono oggi ancora più vere. Viviamo in un’epoca straordinaria. Basta andare indietro di soli dieci anni per chiedersi come fosse la nostra vita senza gli smartphone, l’hd, il Gps, Google, YouTube, Facebook e tante altre meraviglie diventate di uso comune. Forse anche per questo una delle cose più complicate da gestire, per quelli della mia generazione, è questo vivere con un piede poggiato sul terreno di un passato molto lento, e l’altro già sul campo di un futuro troppo veloce. Nel giro di pochi anni una generazione analogica come la mia si è ritrovata catapultata nell’èra digitale, nella quale voi e i vostri amici vi trovate perfettamente a vostro agio, mentre noi annaspiamo, cercando di adattarci e stare al vostro passo per non perdervi terreno: siamo orgogliosi, competitivi, e vogliamo dimostrarvi di essere smart almeno come i vostri cellulari. In ogni caso, a parte la fatica, devo riconoscere una certa gratitudine a queste meraviglie che presentano innegabili vantaggi. Come sapete, figli miei, viaggio molto, ma ovunque mi trovi sono sempre in contatto con voi e sempre raggiungibile se avete bisogno di me. Comunichiamo tutte le volte che vogliamo e abbiamo molte opzioni: WhatsApp, Skype, Fb, Face Time, Messenger… Possiamo farlo da casa, per strada, in auto, in treno, in aereo.

    

Ma dentro di me, è ancora vivo il ricordo di quando – bambino – vivevo in una piccola città della Sicilia, e almeno una volta a settimana mio padre doveva telefonare a Milano o Roma per lavoro. Anche chi, come noi, aveva a casa un grosso e pesante telefono con un combinatore numerico a rotella, non poteva telefonare fuori città: l’interurbana (si chiamava così) si poteva effettuare solo recandosi fisicamente alla Società dei Telefoni. Quello per me era un momento magico, perché potevo accompagnare mio padre a fare le sue telefonate serali. Bisognava aspettare le dieci di sera, perché da quel momento la telefonata costava meno. La Società dei Telefoni era a dieci minuti a piedi da casa nostra, un percorso che io e mio padre facevamo sempre in silenzio, forse perché lui preparava dentro di sé le telefonate che avrebbe fatto di lì a poco. Quando arrivavamo, c’erano sempre altri uomini in attesa, in una sala con grandi poltrone di cuoio. Si poteva fumare, e accanto a ogni poltrona c’era un portacenere a piedistallo con un meccanismo per cui, pigiando su un perno, la cenere e il mozzicone sparivano dentro un contenitore. Dietro un lungo bancone c’erano le centraliniste: mio padre allungava a una di loro un biglietto con il suo nome e i numeri da chiamare, poi andava a sedersi in una delle poltrone libere, accendendosi una sigaretta. Tutti aspettavano in silenzio il loro turno.

     

Il silenzio era importante, perché ogni tanto veniva interrotto dalle centraliniste che chiamavano a voce alta il nome di qualcuno, abbinato a un numero. La persona chiamata spegneva velocemente la cicca nel portacenere, e con passo svelto si avviava nella sala accanto, dove c’era una lunga fila di cabine numerate. Da un inserto di vetro trasparente nelle grosse porte insonorizzate, si vedeva quali fossero libere e quali occupate. Io andavo a giocare entrando e uscendo da quelle libere, che erano anche buie. Quando entravo, un meccanismo nascosto sotto la pedana accendeva la luce all’interno della cabina, e appena chiudevi le pesanti porte sperimentavi un silenzio che era impossibile sentire altrove. Dentro, un odore di pelle emanava dagli intarsi che coprivano il rivestimento dell’insonorizzazione. C’era una piccola mensola e la cornetta appesa a un gancio. Quando, in sala, la signorina chiamava il nome di mio padre, comunicandogli anche il numero della cabina dove gli avrebbe passato la telefonata, io lo seguivo fino alla porta dove il telefono stava squillando e spesso mi chiudevo con lui lì dentro. Mio padre faceva le sue telefonate e poi andava a pagare il conto, che variava a seconda della durata delle chiamate. Ripercorrevamo la strada fino a casa. Non ci dicevamo niente. Forse, lui ripensava alle telefonate appena fatte e ne valutava le conseguenze, sul suo lavoro e sulle nostre finanze. Io ero solo felice di quelle piccole avventure notturne insieme a lui. E’ morto pochi anni dopo. Io avevo solo dodici anni. Il tempo era ancora lento. E questi ricordi sono perle nel mio cuore.

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