John Fante (elaborazione grafica Il Foglio)

L'uomo che non voleva figlie. Il mio John Fante, il miglior padre del mondo

Victoria Fante

Victoria Fante ha scritto per Il Figlio questo ricordo di suo padre

[Victoria Fante ha scritto per Il Figlio questo ricordo di suo padre. John Fante (1909-1983) è stato uno scrittore e sceneggiatore americano, figlio di un muratore, Nicola Fante: emigrato a Denver in Colorado, ma cresciuto a Torricella Peligna in Abruzzo. Dove si tiene il John Fante Festival] 

  


 

In una lettera a sua madre nel febbraio del 1936, mio padre dichiarò i suoi sentimenti riguardo all’avere delle figlie. “Una delle principali ragioni che mi fanno desistere dal prendere moglie e dall’avere figli è la mia peculiare convinzione che i miei figli sarebbero tutte femmine. Una simile prospettiva è per me molto triste. Non mi piacerebbe affatto. Naturalmente, se ciò accadesse io farei del mio meglio, ma difficilmente sarei contento. Mi deprime quando ci penso”.

 

Io ero la terza di quattro figli, l’unica femmina. Avevo due fratelli maggiori, Nick e Dan, più grandi di me di 7 e 5 anni, e un fratellino più piccolo, Jim. Mio padre aveva una concezione vecchio stampo del rapporto padre-figlia: pensava che i ragazzi dovessero passare il tempo con i padri e le ragazze con le madri.

 

Nei primi anni Cinquanta, papà ebbe un grande successo vendendo i diritti cinematografici del suo romanzo Full of life e i proventi gli permisero di comprare la nostra casa di famiglia a Malibu. Durante questi primi anni della mia vita, egli era totalmente preso dai suoi progetti letterari e aveva poco tempo da passare con i suoi figli. Percorreva abitualmente quaranta miglia in auto per raggiungere gli studi cinematografici e tornava a casa soltanto all’ora di cena, perciò non ci capitava di vederlo spesso. Trascorse gran parte degli anni Cinquanta come sceneggiatore di Hollywood, purtroppo, però, i suoi lavori venivano raramente prodotti.

 

I miei genitori, sebbene amassero i loro figli, si sentivano spesso sopraffatti dai disagi che la genitorialità comportava. Quando papà era in casa a scrivere, ci veniva ordinato di giocare silenziosamente e di non disturbarlo perché stava lavorando. Uno dei miei ricordi più dolci di quegli anni era il momento in cui io e mio fratello Jim andavamo a dormire: molte sere papà ci raccontava la storia di una famiglia di scoiattoli, storia che ogni volta veniva modificata ed abbellita. Io e Jim urlavamo di gioia pregandolo sempre di raccontarci di più.

 

Nel 1955 a mio padre fu diagnosticato il diabete. Sebbene gli fosse proibito assumere zucchero, sapendo che le adoravo, mi comprava deliziose caramelle italiane e mi guardava compiaciuto mentre le mangiavo. Per tutto il resto della sua vita continuò a portarmi ogni tipo di dolci. Anche quando diventai una giovane madre si fermava spesso a casa mia con dei pasticcini. Ci sedevamo insieme a bere caffè mentre lui gioiva nel vedermi mandar giù ogni singolo boccone.

 

 

 

Tra la fine degli anni ’50 e il principio degli anni ’60 papà restava spesso fuori dagli Stati Uniti per settimane, per seguire i suoi progetti letterari che lo portavano in Italia e in Francia. Ci tenevamo in contatto scrivendoci lettere; una volta gli scrissi chiedendogli un cavallo e lui mi rispose con la lettera più bella che una bambina possa ricevere. Aveva preso un piccolo pezzo di carta di forma quadrata (foto sopra) scrivendo al centro:

 

Cara Vicky:

Questa è una piccola lettera

su qualcosa di grande.

Sì, puoi avere il cavallo.

… Papà

 

Questa lettera è una delle cose più care che possiedo. In un’altra lettera, datata 24 settembre 1960, conoscendo le mie difficoltà a scuola, mi scrisse per incoraggiarmi: “Lo so che è difficile, ma noi ci aspettiamo da te solo che tu faccia del tuo meglio, niente di più. E’ bello prendere buoni voti, ma ci sono tantissime persone meravigliose e molto brillanti che sono state pessimi studenti. Del resto, a me non importa… mi basta sapere che ci stai provando. Con tutto il mio amore… Papà”.

 

Quando papà tornava dai suoi viaggi, c’era grande entusiasmo a casa nostra. Non ero felice soltanto perché era tornato ma anche perché mi portava sempre dei regali. Una volta, ricordo che lo guardai aprire la sua valigia e tirarne fuori delle bambole per me, una più bella dell’altra. Mi faceva sentire speciale ed amata. Ancora oggi conservo quelle bambole.

 

Nel passaggio da bimba paffutella a ragazza in fiore, confusa circa il rapporto con mio padre, iniziai a trovare imbarazzante parlare con lui. Lo evitavo. Egli trovò allora un modo per comunicare con me portandomi libri di F. Scott Fitzgerald e John Steinbeck da leggere per poi discuterne insieme. E, quando nuotavo nella nostra piscina, se glielo permettevo, si fermava sul bordo e mi aiutava a migliorare la mia tecnica nel nuoto.

 

Quando avevo circa 16 anni ero un’adolescente difficile, e dopo una bruttissima discussione con mia madre, scappai di casa. Fu mio padre a cercarmi. Passò delle ore a chiamare i miei amici nella speranza di trovarmi. Alcuni giorni dopo, quando tornai a casa, papà chiarì la mia posizione all’interno della famiglia. Mi disse che aveva scelto mia madre come compagna di vita e che io ero frutto del loro amore ma, se avessi continuato a comportarmi male, mi avrebbe mandato a vivere in un convento. Da allora iniziai a comportarmi bene.

 

A 18 anni stavo per sposare un bel ragazzo, ma qualcosa non andava. I preparativi per il matrimonio erano già a buon punto e io non avevo il coraggio di tirarmi indietro. Papà fu l’unico ad accorgersi della mia infelicità. Venne da me dicendomi che mi avrebbe sostenuta ed aiutata a rompere il fidanzamento. Mi capiva più di quanto mi capissi io stessa.

 

Negli anni in cui divenni moglie e madre di due bambini, la salute di mio padre fu seriamente compromessa dal diabete. Io non avevo capito la gravità della sua malattia perché completamente presa dal mio ruolo di madre. Quando eravamo insieme lui non si lamentava mai del suo male e mostrava solo interesse per me. Vorrei essere stata più attenta ed essergli stata di maggior supporto.

 

L’uomo che non voleva figlie nel 1936 è diventato, dunque, il più comprensivo, premuroso ed amorevole dei padri. Ho la fortuna di poter dire che lui è stato mio padre. Prima della sua scomparsa, avvenuta nel 2005, mia madre mi ha seguito perché imparassi ad occuparmi delle opere letterarie di mio padre. E’ per me un grande piacere contribuire a tramandare l’eredità di un uomo che mi ha sostenuta per tutta la sua vita.

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