Lui suona per lei

Giovanni Battistuzzi

L’uomo con il flauto sta sotto i platani dei passerotti. Forse sui rami sua figlia Matilda lo ascolta

Il suo sguardo incrocia la piramide Cestia, poi si posa sui rami degli alberi ancora avvolti dal calore del pomeriggio di un’estate romana che sta per finire. Lui aspetta. Sa che prima o poi verranno. Come sempre, come ogni giorno. L’uomo che suona ai passeri inizia a soffiare nel flauto al primo battito di ali che sente, al primo uccello che si posa tra le fronde dei platani. Non suona, fischietta note stonate che formano una melodia che tanto melodica non è. Ma va bene lo stesso, i passeri si fermano comunque. Restano lì a guardarlo dall’alto, sanno che va bene così. Perché a volte basta solo un po’ di compagnia, qualche minuto di attesa prima di volarsene altrove.

  

Ogni giorno di sole su Roma l’uomo che suona ai passeri si ritrova accanto ai binari del tram a fare quello che si sente di fare e che forse deve fare: soffiare dentro il flauto le sue note di pianto. Sa che il suo pubblico non applaudirà mai, ma gli basta un cinguettio per sentirsi meglio. Suona, incurante di tutto, degli spartiti, di quello che gli uomini pensano, di quello che gli uomini chiedono: ossia bravura, ossia la necessità di qualcosa di bello per giustificare il fatto di prendersi qualche minuto da chissà quali grandi impegni. A lui non interessano i giudizi musicali, non è maestro, e se ne può fregare dei critici, non è musicista né tanto meno compositore. Suona quello che vuole e quello che vuole è quello che sa: la Primavera di Vivaldi, l’unica composizione che più o meno ricorda, l’unica che forse un tempo ha imparato. Suona l’inizio del primo movimento, il Canto degli uccelli, e se anche non ha a memoria tutte le note, poco importa, lui soffia comunque nel suo flauto e i passeri restano ad ascoltare.

   

Ogni giorno di sole su Roma, dopo aver mangiato quest’uomo prende il suo strumento ed esce di casa. Passeggia e passeggiando cerca di ridurre una distanza che mai si annullerà. Poche centinaia di passi che sono pellegrinaggio verso il passato. Si sistema lì e in piedi sotto gli alberi prova a rimettere a posto i suoi pensieri. Forse solo lì può tentare di rimettere a posto la sua vita. Che si attorciglia su di un’assenza intollerabile: Matilda, tre sillabe che sono un vuoto impossibile da riempire. Matilda, che per l’uomo che suona ai passeri era la vita intera, l’esistenza, il sole, le stelle, il vento e tutto il resto, una figlia da cullare e da amare, non certo da perdere in un pomeriggio d’estate.

  

“L’amore è una cosa meravigliosa, talmente meravigliosa che può diventare atroce”, dice. Poi continua a suonare le sue non note. Fischia l’assenza di ciò che si pensa sarà per sempre e che da un momento all’altro si scopre che per sempre non è. Fischia l’assenza di Matilda, interpretando l’ultimo foglietto di carta che gli ha dato sua figlia: quegli alberi abitati dai passeri e quell’uomo sotto che intona loro una serenata.

  

Sono gli alberi che Matilda vedeva quando andava al parco. Ci andavano sempre per prendere il respiro che le serviva per continuare a vivere e che il suo cuore succhiava e respingeva. Una malformazione, dicevano i medici. Quello che i dottori non dicevano era altro: erano lacrime private, lontane da lei, era il dolore intollerabile che cresceva dentro. Perché intollerabile è l’idea che un figlio possa andarsene a breve, che non invecchierà e non ti vedrà invecchiare. E anche se si ha coscienza che verrà quel giorno, non si può essere preparati, non si può accettare che uno dei fogli che in ospedale Matilda riempie con i suoi giovani ricordi, quegli alberi che vedeva al di là del parco, lungo i binari del tram, sarà l’ultimo. C’è sempre la flebile speranza, l’idea che qualcosa di non razionale possa accadere, che un medico possa entrare nella stanza e dire: “Non sappiamo come sia potuto succedere ma sua figlia è guarita”.

  

Parole che nessuno ha mai pronunciato. Quello è stato l’ultimo disegno di Matilda, il suo ultimo sorriso di bambina. L’ultimo istante insieme.

    

E così ogni giorno, ogni giorno di sole su Roma, chi scende dall’Aventino per raggiungere Porta San Paolo pensa di passare accanto a un pazzo, a uno che suona non sapendo suonare. Ma imperscrutabile per tutti è l’amore. Soprattutto se puro, se perduto per sempre. E chissà se è vero che un amore lo si perde per sempre. Magari va solo cercato, anche a costo di abbandonare la logica. Forse allora Matilda non se ne è andata davvero, è diventata un passerotto che cinguetta al sole su di un albero del centro della Capitale. E l’uomo che suona ai passeri suona solo per lei.

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