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Il Bi e il Ba

Vasco, Proust e l'importanza dei tempi verbali

Guido Vitiello

In "Liberi, liberi" Vasco canta: "Cosa diventò quella voglia che non c'è più?". Usa il passato remoto, e non il passato prossimo, perché il punto è che il segreto degli anni vitali lo si è perduto in un batter d'occhi, non in un trapasso continuo o in una sequenza. E poi scopro che il cantautore è cultore di Proust

Questa settimana sono per lo più al volante, e in macchina ascolto malvolentieri i notiziari. La mia compulsione di commentatore si rovescia così sui testi delle canzoni che via via mi propone una playlist di cantautori italiani su Spotify. Ieri per esempio mi sono sorpreso a ragionare su Liberi liberi – la ascoltavo in terza media – e sul gioco sottile che Vasco Rossi allestisce con i tempi e i modi verbali. La strofa, esitante, tesse una ragnatela di condizionali e di congiuntivi trapassati, di vite ipotetiche e di fantasticherie retrospettive, neanche a cantare fosse l’Ulrich di Musil, finché arriva a squarciarla, trionfante, l’indicativo a voce spiegata di quel “Liberi liberi siamo noi, però liberi da che cosa?”.

Ma il gioco non finisce qui. Perché al momento di domandarsi che fine abbia fatto l’anelito che sospingeva la giovinezza, Vasco Rossi vira di colpo al passato remoto: “Cosa diventò quella voglia che non c’è più?”. Uno qualunque dei cantautori specialisti nella lamentela generazionale se la sarebbe cavata con il passato prossimo, e avrebbe stabilito un rapporto più o meno autocommiserante e moraleggiante tra lo ieri e l’oggi. Vasco Rossi no: il segreto degli anni vitali lo abbiamo perduto in un batter d’occhi, non in un trapasso continuo o in una sequenza tutto sommato spiegabile. Proprio per questo, forse, è possibile ritrovare lo scrigno sepolto, in una riemersione improvvisa. “Sapevi che Vasco è un cultore di Proust?”, mi dice Ilaria, seduta al mio fianco. Non lo sapevo, e anche se una verifica delle date – la canzone è del 1989, Vasco Rossi ha scoperto la Recherche nei primi anni Duemila – esclude un’influenza diretta, la consonanza è quanto meno curiosa. I lettori più esperti di me ricorderanno le pagine di un Genette o di un Weinrich sulle implicazioni esistenziali dell’alternanza proustiana tra l’imperfetto e il passé simple, il nostro passato remoto. Io mi accontento di citare una frase di Proust (in Chroniques) secondo cui Flaubert è stato il primo a “mettere in musica” i tempi narrativi. Ora sappiamo chi è l’ultimo.