Il vento sta cambiando. Con questa foto su Facebook, Virginia Raggi ha commentato il devastante incendio di Castel Fusano (i cui resti carbonizzati si vedono sullo sfondo)

La regina delle ceneri

Gianluca De Rosa

Brucia la pineta di Castel Fusano, bruciano i campi rom. Fiamme, illegalità, poche idee: viaggio al termine delle periferie

In zona Cesarini, il primo agosto, tre giorni prima di andare in ferie, i deputati della commissione d’inchiesta sulle “condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie”, hanno fatto una serie di sopralluoghi sotto la canicola estiva nei campi rom e negli insediamenti abusivi del quadrante Est della Capitale. Quella zona della città dove quest’anno, in particolare dall’inizio dell’estate, i roghi tossici (e le nubi nere che li accompagnano) hanno torturato un territorio che di problemi ne ha già moltissimi. Tre le aree: gli insediamenti nel parco Casilino, il campo attrezzato di La Barbuta (a due passi da Ciampino) e quello di Via di Salone. Insieme alla commissione, l’assessore capitolino alle Politiche Sociali Laura Baldassarre e quello all’Ambiente Pinuccia Montanari. Dopo il giro, in una conferenza stampa sonnecchiante, dentro una parrocchia di Ciampino, i parlamentari hanno lanciato una “bomba” passata sotto silenzio (per la valida ragione che rimarranno parole): “A Roma è necessario adottare norme speciali per contrastare l’incremento dei roghi tossici. Un piano che preveda un presidio maggiore del territorio anche attraverso l’estensione del decreto della terra dei fuochi”. Per il presidente della commissione, Andrea Causin, i roghi “non sono combustioni casuali. Dietro c’è un racket milionario. Guadagna chi dà i rifiuti e chi li riceve e li brucia”. Per questo, ricorda l’assessore Baldassare, “stiamo potenziando videosorveglianza e presenza della municipale”.

Tra intenzioni e fatti però la distanza è abissale: davanti al campo de La Barbuta la macchina della municipale è ferma a più di 500 metri dai container e i vigili hanno difficoltà a decifrare cosa accade, chi entra e chi esce. I sopralluoghi sono cominciati dal Parco Casilino, lì dove sorgeva il più grande campo di Roma, smantellato nel 2010 da Gianni Alemanno e oggi infestato da insediamenti abusivi temporanei. Qui da giugno gli incendi sono stati più di 24. La “Comunità del Parco”, un’associazione del quartiere, sta lavorando alla bonifica insieme a due famiglie rom tornate a vivere all’ingresso. Ma il loro lavoro è costretto a fermarsi all’entrata: oltre, insediamenti abusivi e di roghi rendono impossibile la bonifica.

  

Dejan Seidovic, con sua moglie e i suoi otto figli, insieme alla famiglia del fratello collabora con l’associazione: “Stiamo cercando di pulire tutta la zona, ma qui c’è troppa spazzatura – ci racconta mentre camminiamo per il parco – Il problema è che ci sono tantissime persone che entrano ed escono continuamente, di ogni etnia, non solo rom, ma anche marocchini e immigrati africani. Cumulano la spazzatura e la lasciano qui, e così, spesso, i rifiuti prendono fuoco”. Oltre l’ingresso, dove Seidovic vive con i suoi parenti, sono tanti gli insediamenti abusivi, tra sporcizia e roghi ormai spenti. In mezzo al parco c’è persino un autosalone di veicoli di lusso a targa gialla, gestito da due famiglie di montenegrini, un tempo ospiti del Casilino 900. Davanti, hanno creato addirittura una spianata di cemento. “Un nuovo abuso possibile anche grazie al fatto che il cancello è chiuso e qui dentro viene fatto di tutto, come questa rampa che andrebbe abbattuta”, spiega Urio Cini, anche lui della comunità del parco della Casilina. “Dell’autosalone, invece, non abbiamo notizie dirette, sappiamo solo che ci sono moltissime autovetture di notevole valore. Lo gestiscono due famiglie, una con bambini, piuttosto tranquilla, l’altra composta da due fratelli che credono di essere i padroni del posto. Quando qualcuno passa, gli sguinzagliano dietro i cani”.

   

Uscendo dal parco Casilino e attraversando la strada si arriva alla famosa “buca” di Torrespaccata, una grande fossa prodotto di scavi per la costruzione di un palazzo mai edificato, dove si trovano letti abbandonati, scarpe, tovaglie, forni, ferri da stiro e metallo e cianfrusaglie di tutti i tipi. Tutto il terreno, più basso di diversi metri rispetto alla via, è completamente incenerito, e si sente un forte odore di plastica bruciata, che ha scatenato la rabbia degli abitanti del quartiere. La seconda tappa è il campo di viale Salone, dove entrando incrociamo tutta una famiglia che vive in un modulo abitativo ben curato, con vasi di fiori fuori, tavoli e sedie pulitissimi. In evidente contrasto con gli immensi cumuli di spazzatura che circondano il campo. Stanno lavando con una pompa le stoviglie dopo il pranzo, e sono piuttosto confusi dalla presenza dei giornalisti. La mater familias, una signora alta e corpulenta, capelli lunghi bianchi e occhi azzurissimi sulla pelle rovinata dal sole ci spiega “Ma sai quanta gente passa di qui? L’errore vostro è che per voi noi siamo tutti uguali, ma lo vedi qui quanto è pulito, guarda lì di fronte – ci dice indicando il lato opposto della via che divide in due il campo – lì ci sono i bosniaci, sono sporchi e bruciano tutto, noi, quando ci mandano via da qui, mai più con loro!”. Le divisioni nei campi sono tantissime. Soprattutto tra rom di origine bonsniaca e di origine serba. A via Salviati sono arrivati addirittura a costruire un muro. Lo stesso campo dove lo scontro tra due famiglie potrebbe avere portato alla morte delle tre sorelle Halilovic nel rogo del camper a Centocelle e da dove venivano gli inseguitori della ragazza cinese morta sotto un treno.

  

Poco più giù (nel lato bosniaco) si crea un siparietto tra la parlamentare Pd, Daniela Gasparini e un gruppetto di quattro abitanti del campo. A tenere banco con la parlamentare è un ragazzo sdentato che si chiama Samir Alija ed è uno dei portavoce del campo: “Il problema qui è che dopo Mafia Capitale, siamo stati abbandonati – spiega – le fognature non funzionano più, i container sono fuori garanzia e sono troppe le persone che sono costrette a viverci dentro”. “Non è assolutamente vero che la comunità Rom non vuole integrarsi: tutti si sono stufati dei campi che sono ghettizanti”. Insieme a Samir, c’è una sua giovane amica, che preferisce non dire il suo nome, spara a zero su politici e giornalisti che “quando vengono qui ci trattano come loro pari, ma quando ci beccano a rovistare nei cassonetti, ci cacciano malamente. Non possiamo prendere i vostri, rifiuti, allora vi rubiamo in casa”, dice sorridendo fra il serio e il faceto. La sua non è un’ostilità vera, ma solo la voglia di provocare e sottolineare l’ipocrisia di un certo tipo di perbenismo. “Voi pensate che noi siamo tutti uguali – prosegue – aprite la mano ci dice – le vedete le cinque dita: una è più alta, una più bassa, una più grassa e una più affusolata. Noi siamo come le vostre dita: diversi”. Quando gli chiediamo se sarebbe un problema per lei lasciare il campo e la comunità che lo abita in cambio di un alloggio risponde senza esitazione: “Ma se mi date una casa io prendo i miei bambini e faccio ‘ciao ciao’ a tutti, ma chi li ha mai visti questi, ma chi sei?” dice ridendo e tirando uno schiaffetto sulla spalla di Samir. Come lei, tutti questi ragazzi e ragazze sono d’accordo: per una casa la comunità la salutiamo volentieri. Alla faccia del familismo rom!

  

A La Barbuta, terza e ultima tappa della commissione, ormai di pomeriggio, ma con ancora 42 gradi centigradi, la socialità non è di casa, gli abitanti sono molto più diffidenti e il clima più cupo. Nelle faide tra fazioni, alcuni moduli abitativi sono stati dati in parte alle fiamme e la gente è davvero stufa di vivere in un posto dove ogni pochissimo ti passa un aereo a 30 metri dalla testa.

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