Un murales a via Padova (foto LaPresse)

Via Padova o NoLo?

Lorena Ansani

NoLo è un atteggiamento, non l’evoluzione di questo mondo (che qualcuno vorrebbe trattare a ruspe)

Via Padova sarà per sempre una lunga arteria con sangue misto e il parco Trotter il suo specchio. Al Trotter, alle elementari, negli anni 80, c’era Caterina che aveva i genitori analfabeti e Lucia che aveva il papà che andava sempre a Un giorno in pretura perché era un avvocato famoso. Al Trotter ci andavano sia Lucia che abitava in Porta Venezia ed era ricca sia Caterina che era povera in canna e aveva il papà emigrato in Germania. Al Trotter c’era la fattoria. Quando mio papà era comunista diceva sempre che le uova delle galline le portavano tutti i giorni a Craxi. C’era il custode che era Bud Spencer ma greco, lì ho imparato kalimera e kalispera e magari poi ho fatto il classico per quello. Al Trotter c’era Yi Yun che era di Taiwan, la prima bambina cinese che ho conosciuto. C’era Ettore, c’era Painé figlio di argentini scappati dalla dittatura, c’era Mingo il brasiliano, c’erano un sacco di terroni e un sacco di figli di gente strana. Pure i nomi dei bambini in quella scuola erano strani.

C’era il maestro Romagnoli che era di Bologna e aveva quell’accento lì e la maestra Fedora, pure lei un nome strano. C’erano poveri, ricchi, colti, ignoranti, timidi e felici.

 

Fuori era lo stesso. Lo vedevi dalle case in cui si facevano le feste di compleanno. Dall’arredamento, dai profumi, dalle merende capivi tutto: le origini, i sogni e le speranze delle famiglie. Ti capitava di mangiare pane e Nutella oppure alghe secche, a seconda del compagno che ti ospitava. Io spesso masticavo alghe secche perché con Yi Yun eravamo proprio amiche. Oggi gli immigrati ci sono sempre, sono sempre poveri come allora e scommetto che se si entra in qualche casa di ringhiera di fronte al parco a parte qualche ragazza con i capelli viola che fa l’artista e vive lì con l’affitto pagato dai genitori perché vivere a NoLo è il massimo, ci si trovano gli stessi odori e le stesse voci, solo che magari sono in arabo o in cinese. Via Padova non è cambiata negli anni. E’ sempre stata il porto accogliente e placido di chi arriva con speranza o disperazione. Allora per la famiglia di Emanuele che, arrivata dalla Sicilia, viveva in un negozio di via Arquà, così come di Sharif che vive oggi nel suo retrobottega.

 

In zona è nata una moda da un po’ di anni, questo fenomeno di loft e localini industrial e di gente che smania per mettersi in bocca la rotondità di NoLo. Fanno la spesa al parco con i prodotti bio (vedi le uova di Craxi) e si mescolano agli immigrati e alle loro botteghe incasinate. Via Padova da appestata è diventata attrazione. E chi ci abita da un quarto d’ora si sente tremendamente cittadino del mondo e finto vicino al prossimo suo immigrato clandestino. NoLo è un atteggiamento, NoLo non è via Padova e non ne sarà la sua evoluzione. NoLo è nato a tavolino e non ha migliorato granché le vite di chi ha le finestre affacciate su questa strada e che alle tre di notte chiama ancora i carabinieri per schiamazzi e bottigliate. O meglio, chi l’ha creato ha anche intenti nobili e puri, ha creato una radio, un brand con il capodoglio, il cinema di quartiere: tutto bellissimo, ma quattro barbe impomatate che commentano film non riusciranno a scalfire la magnifica, struggente sofferenza e bellezza della storia di questa via del mondo. Via Padova era riconoscibile anche prima, aveva già la sua etichetta e un sindaco, così ormai salutato dai “nolers”, che scrive le regole della “social street” – così si dice – in un gruppo Facebook. Via Padova non è marketing. Annega nella Martesana ed è fatta delle radici degli alberi del Trotter, delle case di ringhiera, dei sacchetti della spesa.

 

Per entrare sotto la pelle di questa strada bisognerebbe farsi una bella passeggiata, lunga, che non si fermi al primo negozietto pittoresco, ma che raggiunga il cuore della via e salga su, fino a Cascina Gobba, entri nei portoni, annusi e ascolti, oppure guardare il bel documentario di Giulia Ciniselli, “Prossima fermata Via Padova. Storia di migranti del ’900”. Ascoltando le voci di chi vive nel quartiere, di chi ci è capitato in cerca di una vita migliore o di chi ci è nato si colgono le difficoltà dell’integrazione, il disagio sociale, il pregiudizio, il tentativo di integrazione ed emancipazione, attraverso il lavoro e gli spazi sociali (la bocciofila, gli oratori, i cortili, le case di ringhiera). Il documentario è uno dei cardini del progetto “Volti, memorie, identità della via Padova”, curato dall’associazione La Città del Sole - Amici del Parco Trotter; il progetto ha prodotto anche il libro fotografico “Via Padova e dintorni. Identità e storia di una periferia milanese” (lo trovate nella libreria specializzata in gialli, Il covo della ladra, in via Scutari, angolo via Padova, la scommessa di Mariana che ha scelto di aprire una libreria nel quartiere) curato da Uliano Lucas che raccoglie le immagini della zona dai primi del ’900 a oggi ed è e frutto di una ricerca durata un anno e corredata dai testi di Dino Barra e Tatiana Agliani che indagano le radici storiche, la matrice operaia e l’anima popolare del quartiere.

 

Varcate la soglia di piazzale Loreto, e lasciatevi andare a questa che sembra una guerra tra memoria e identità e modernità social. Mentre là fuori, nel resto d’Italia, via Padova rimane soltanto uno dei posti che si citano per parlare di delinquenza e che qualcuno vorrebbe cancellare con le ruspe.

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