Roberto Maroni e Beppe Sala (foto LaPresse)

Il Gioco Grande che ora Sala e Maroni possono aprire, senza pensare ai confini

Roberto Arditti

Dopo il voto consultivo la domanda è: cosa faranno nei prossimi mesi il sindaco di Milano e il governatore lombardo?

Qualche riflessione ragionata post referendum. Il risultato non rappresenta un ostacolo alla ricandidatura di Maroni, tema che invece si sarebbe posto con una certa forza di fronte a un’affluenza più bassa. Anche se la distanza con l’affluenza veneta (57,2) rappresenta un tema di non banale rilevanza politica. E qui arriviamo alla seconda conseguenza del voto di domenica, che riguarda invece il sindaco di Milano Beppe Sala. Già, perché non solo la Lombardia ha votato assai meno del Veneto, ma la provincia con il dato più basso è di gran lungo Milano, con palpabile soddisfazione dell’inquilino di Palazzo Marino. Abbiamo quindi un governatore in sella, che supera l’ultimo scoglio prima della sua riconferma a Palazzo Lombardia, pur in presenza del miglior candidato di sempre schierato dalla sinistra, cioè Giorgio Gori. E abbiamo un sindaco che può cavalcare una centralità metropolitana, saldamente poggiata sulla palese indifferenza che i milanesi hanno riservato al referendum lombardo. Cosa succederà nei prossimi mesi, ben sapendo che nessuno ha la sfera di cristallo? Maroni userà il voto referendario come piattaforma della sua campagna elettorale. Lo farà con il suo stile, garbato, furbo, determinato. E’ a capo della più ricca regione d’Italia, che versa allo stato 50 miliardi in più di quelli che riceve. Nei numeri è nella posizione più forte, ben più robusta di quella del suo collega Zaia. Però è costretto a giocare un partita più complessa di quella veneta. Innanzitutto perché la Lombardia esiste più sulla carta geografica che nella testa e nel cuore dei suoi abitanti. Ad esempio chi scrive è lodigiano, landa di pianura che ha in Piacenza, Pavia e Cremona il suo “humus” territoriale, a distanza siderale da Bergamo o Como, per non parlare di Lecco e Sondrio. Ma non c’è solo una questione di omogeneità economica o socio-culturale. C’è Milano piantata al centro della Lombardia, unica metropoli d’Italia e tra le più importanti d’Europa. Ecco la grande differenza tra Lombardia e Veneto: Venezia è una capitale romantica, un gioiello da esibire.

 

Milano è da sola metà della Lombardia per fatturato e abitanti, 3/4 della finanza e della cultura, il 90% della moda, della musica e di tutto ciò che fa tendenza. Milano è Milano “a prescindere” dalla Lombardia, tanto è vero che solo il 25% dei suoi abitanti va al seggio per votare il referendum di domenica. Qui si apre dunque un tema di immenso significato politico e istituzionale. La Repubblica concepita alla fine degli anni 40 è a tutti gli effetti uno stato nazionale, continuazione del Regno d’Italia su modello francese (da cui le prefetture). Essa è oggi palesemente anacronistica, poiché l’unico stato di cui ha senso parlare è quello europeo, in forma compiutamente federale. Tutto il resto è semplicemente patetico (o pericoloso). Venti o trent’anni fa questo ragionamento avrebbe portato a guardare alle regioni come strumento saggio di devoluzione verso il basso, da combinare con quella verso l’alto della moneta e della politica estera (consegnate alle autorità di Bruxelles). Oggi però anche il regionalismo mostra la corda. E’ troppo piatto, troppo legato a un concetto (i confini) privo di senso nel tempo in cui viviamo.

 

Il vero protagonista del nostro tempo sono le grandi città, uniche realtà capaci di mescolare genti di tutti i mondi, profit e no profit, popolo ed establishment.

 

Ecco Milano quindi, non capitale (torneremmo ai confini, sbagliando) ma punto di riferimento di una vasta aerea a sud delle Alpi e a nord del Po, città da 4 milioni di abitanti con Torino a mezz’ora di treno e (presto) il mare a un’ora di Freccia Rossa. La legislatura che arriva dovrà provare a dare un nuovo assetto alla Repubblica. Maroni ci arriva con tanto di mandato referendario. Sala, forte com’è di una Milano sulla cresta dell’onda che di più non si può, giunge persino a predicare “lentezza”, da intendersi come stile di vita più sostenibile e non come cedimento salottiero da aperitivo al “n’ombra de vin”. Passeranno i prossimi mesi a punzecchiarsi, ma saranno costretti a fare il Gioco Grande, quello che lascia il segno.

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