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Gran Milano

La mostra-risarcimento della Scala a Zeffirelli

Alberto Mattioli

Il regista incompreso, a cui è stata rivolta un'ostilità spesso ideologica, viene celebrato da un'esposizione e dal documentario che l'accompagna. Ne emergono due lezioni: la multimedialità del suo teatro e la visione nazionalpopolare del melodramma

La mostra che il Museo teatrale della Scala dedica a Franco Zeffirelli (a cura di Vittoria Crespi Morbio, fino al 31 agosto), in anticipo sul centenario del regista, nato nel ’23, costituisce una sorta di risarcimento postumo per l’ostilità spesso puramente ideologica, quindi ottusa, che lo accompagnò e soprattutto smaschera l’assoluta incapacità della cultura operistica italiana, critica e pubblico in questo concordi, di capire che non esiste un modo “giusto” o “corretto” o men che meno “rispettoso” di mettere in scena Verdi o Puccini, ma che ogni tempo elabora il suo.

 

Zeffirelli debutta alla Scala nel 1953, scenografo e costumista per un’Italiana in Algeri di Corrado Pavolini, viene promosso regista già l’anno seguente per una Cenerentola e alla Scala resta fino al 2006 con l’Aida terminale: più di mezzo secolo di attività, ventuno spettacoli in tutto. Nasce nel mondo di Visconti e della Callas che, consapevolmente lui, inconsapevole ma geniale lei, affrontano il problema di un repertorio che, per la prima volta nella storia, è costituito quasi soltanto da titoli del passato. La risposta è un teatro che è, contemporaneamente, il testo e l’evocazione del mondo culturale, storico, sociale che l’aveva concepito. All’epoca, era una scelta tutt’altro che reazionaria o consolatoria, anzi innovativa.

 

E il grande Zeffirelli degli anni Cinquanta e Sessanta la interpreta con il suo gusto già sfarzoso ma non ancora pacchiano. Vedere per credere quattro dei cinque meravigliosi costumi creati per la Maria nel Turco in Italia del ’55, dove lei è sì la capricciosa Fiorilla ma anche una sciura milanese stile Impero, di quelle che facevano girare la testa a Stendhal con la vita alta e i seni in bella vista. Ecco l’allegra brigata dei soldati napoleonici sdoganati dalla monarchia borghese luigifilipparda come una stampina di Épinal nella Fille du régiment (nel ’59 a Palermo, alla Scala nel 2007) o la meravigliosa Aida umbertina del ’63, con scene e costumi di Lila De Nobili, dove i costumi pseudoegizi diventano dei Worth superaccessoriati dell’aristocrazia europea in tour a Suez (e con il commendator Carlo Bergonzi spericolatamente a cavallo nel trionfo, ma purtroppo senza barba e baffi alla Napoleone III come sarebbe stato “de rigueur”). Infinite volte ripresa, però sempre più inciccionita quindi imbruttita, La bohème del ’63 resta una pietra miliare della storia dell’interpretazione, con Puccini cui finalmente viene riconosciuto il merito di aver inventato il cinema, mentre i Pagliacci fascio-neorealisti dell’81 spostano le coordinate temporali dell’opera ma senza provocare alcun “povero Leoncavallo!” dal loggione, chissà perché. 

 

Ma corsi e ricorsi del gusto fanno un altro giro. Di fronte a un teatro che non si accontenta più di rievocare il passato, ma vuole cercarci le ragioni del presente, Zeffirelli si chiude a riccio e si autoproclama, anche con interviste improvvide o ridicole, custode di una “tradizione” che in realtà è inventata come tutte le tradizioni. Di fronte al pauperismo del cappottone modello Regietheater, la risposta è la moltiplicazione esponenziale di ciaffi, piume, perline, luccichii, pagode, pagodine (la Turandot dell’83, quella che ancora al Met viene applaudita all’apertura del secondo atto), e poi cavalli, asini, coristi, ballerini, comparse e altri animali, insomma l’estetica del più ce n’è e meglio è. Gli immortali vertici al contrario sono il Don Carlo del ’92, quando il rigorosissimo Muti andò in scena con un Pavarotti che non sapeva la parte, e la ricordata Aida del 2006, un incrocio fra Gardaland e la metro all’ora di punta e con il finale del terz’atto più ridicolo di sempre.

 

E tuttavia dalla mostra, e dal bel documentario di Francesca Molteni che l’accompagna, emergono due lezioni di Zeffirelli che sarebbe bene meditare. Una è la sua multimedialità, con il teatro che diventa televisione (il celebre Otello del ’76, prima opera in diretta tivù della storia italiana) o cinema, senza snobismi e anzi elaborando linguaggi e soluzioni specifiche e, alla fine, anche quasi sempre convincenti. L’altra è una visione autenticamente nazionalpopolare del melodramma, secondo la celebre definizione di Gramsci che toccò proprio a un anticomunista a ventiquattro carati come Zeffirelli inverare. L’idea, insomma, che quest’arte insieme aristocratica e popolare, alta e bassa, raffinata e baraccona, sia e debba essere di tutti e per tutti. Che è poi una delle grandezze, e non di quelle secondarie, della civiltà italiana.

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