Franco Zeffirelli (Ansa)

Venezia 2022

Zeffirelli, che la cupa sinistra odiava perché era bravo e amava la bellezza

Andrea Minuz

Fu al centro della scena pubblica per polemiche e dichiarazioni che facevano scandalo. Mai però considerato come artista. Il “Conformista ribelle” di Anselma Dell’Olio in anteprima al Festival del Cinema, s’interroga sul paradosso di un personaggio inclassificabile

Con consueta perfidia Flaiano l’aveva ribattezzato, “Scespirelli”. Soprannome in fondo affettuoso, anche perché i due furono molto amici, ma che pure raccontava bene la spocchia, la diffidenza, l’incapacità o rifiuto della cultura italiana di prendere sul serio Franco Zeffirelli. Non ci fu neanche un pentimento tardivo, come spesso capita con gli artisti. Nessuno “sdoganamento” concesso, come coi film di serie B. E anzi, chi fu a Venezia nel 1988 ricorderà ancora le sonore spernacchiate alla proiezione del suo “Il giovane Toscanini”.

 

Da vivo o da morto, Zeffirelli in Italia è stato sempre ben poca cosa. Tre anni fa, infastidito dall’omaggio che gli rese Firenze in occasione dei funerali, il rettore barricadero, Tomaso Montanari, non perse occasione per definirlo “un insopportabile mediocre” (giocandosi di nuovo, ma stavolta su Twitter, lo “Scespirelli” di Flaiano). Più odiato che incompreso, Zeffirelli fu al centro della scena pubblica per polemiche, dichiarazioni che facevano scandalo su qualsiasi tema, dall’aborto ai rigori alla Juve, dunque immortalato anche in furibonde litigate televisive. Mai però considerato come artista, casomai “arredatore” (come diceva di lui il suo mentore, maestro e cattivissimo padre putativo, Luchino Visconti). Eppure, proprio con Shakespeare Zeffirelli fu assai rivoluzionario.

 

Fu l’unico italiano a trionfare all’Old Vic di Londra. Diresse in modo superbo Richard Burton e Liz Taylor, all’apice della loro fama, ne “La bisbetica domata”. Risollevò le sorti della Paramount con “Romeo e Giulietta”, nel 1968, film che aprì una nuova era negli adattamenti shakespeariani e preparò la strada al kitschissimo “Romeo + Juliet” di metà anni Novanta, con Di Caprio e Claire Danes a spasso per una “Verona beach” fluorescente (l’idea che un testo di Shakespeare possa avere come target ideale gli adolescenti viene prima a Zeffirelli che a Baz Luhrman). Tutte cose che nei nostri libri di storia del cinema o del teatro non si trovano. Zeffirelli è liquidato in due righe d’ordinanza (“allievo di Visconti, ne ha appreso le forme esteriori non la lezione più autentica”), nessun saggio, nessuna monografia. C’era allora un gran bisogno di questo documentario di Anselma Dell’Olio che, sin dal titolo, “Conformista ribelle” (prodotto da La Casa Rossa, in anteprima al Festival di Venezia), s’interroga sul paradosso di un personaggio inclassificabile: un artista di fama internazionale, amato all’estero, denigrato in patria, che ha cambiato il modo di avvicinare i classici e l’Opera (lo ricorda anche una targa al Metropolitan).

 

Innamorato di Firenze, dell’umanesimo, del bello, di un’idea classica di cultura, sintonizzato sul celebre adagio verdiano, “torniamo all’antico, sarà un progresso”, Zeffirelli era un uomo del Rinascimento il cui massimo sforzo fu di essere popolare, come spiega Caterina D’Amico nel film (non significa “avere successo”, precisa, ma coltivare la capacità di parlare a tutti o almeno provarci, come fece Zeffirelli, affascinato dall’idea di rendere accessibili i classici). “Conformista ribelle” è così un concerto a più voci, organizzato in brevi capitoli, che intreccia film, materiale di repertorio, archivi fotografici, ricordi e interviste, per addentrarsi nell’enigma Zeffirelli. Come già coi documentari su Ferreri e Fellini, per Anselma Dell’Olio non si tratta di passare in rassegna vita e opere di un autore, ma di provare a capire cos’è che le ha generate, quale forza interiore, visione, fantasia le tiene insieme. Zeffirelli però non era un autore. Né voleva esserlo. Non parlava sempre di sé, come i grandi autori. Preferiva semmai mettere tutto sé stesso in quel che faceva: opera lirica, teatro, cinema, tv.

 

Ecco il suo spirito rinascimentale. L’idea che l’arte non abbia a che fare solo con ispirazioni, trastulli, esigenze interiori, ma con il “mestiere”, col saper fare bene anche quello che ti commissionano. “Non si capisce come questa comunità di lazzaroni, avari, bottegai interessati ai quattrini”, dice Zeffirelli nel film, parlando della Firenze del Rinascimento, “abbia partorito la più grande espressione dello spirito umano” (come nella celebre battuta di Orson Welles sugli orologi a cucù degli svizzeri, vissuti d’amore fraterno per cinquecento anni, e le guerre, gli omicidi, il terrore dell’Italia da cui vennero fuori Michelangelo, Leonardo, il Rinascimento). Ma quando Zeffirelli definisce la cultura fiorentina “un progetto umano” sta in fondo parlando anche di sé. E c’è un po’ di Rinascimento nella sua formidabile villa di Positano, una residenza pazzesca, a picco sul mare, con vista sul golfo di Napoli, teatro di feste, happening e cene memorabili, allestita a immagine e somiglianza di Zeffirelli (imperdibile, nel film, l’aneddoto dettagliato d’una sua furibonda litigata con Nureyev, che si vendica sfoderando strabilianti capacità di controllo intestinale, in una versione alta e poetica della cacca di Amber Heard sul letto di Johnny Depp).

 

Rivive soprattutto nel racconto di “Conformista ribelle” la capacità di Zeffirelli di mettere insieme gli opposti e farli convivere. Non possono che esserci tanti Zeffirelli, allora, che il film intreccia uno dopo l’altro, a partire dall’infanzia difficile, l’abbandono del padre, l’iniziazione all’arte delle vecchie zie. C’è il polemista, il bastian contrario, l’ex partigiano poi fervente anticomunista, l’omossessuale cattolico e liberale che si forma prima con La Pira, poi con Visconti negli anni furiosi del neorealismo e del marxismo all’italiana. C’è l’artista che rivisita l’Opera lirica e reinventa Shakespeare a teatro e al cinema. C’è il regista per nulla ansioso di essere considerato “auteur”, preoccupato più di raccontare e dirigere bene gli attori che di posizionare la macchina da presa. C’è “l’Agenda Zeffirelli”, da intendere qui anche in senso letterale. Una rete di contatti e amicizie impressionante, da Cher a Liz Taylor e Richard Burton, da Bernstein a Laurence Olivier, da Lady Diana a Judi Dench: non c’erano artisti e personaggi dello show-business che Zeffirelli non fosse in grado di chiamare al telefono, anche all’ultimo minuto, per coinvolgerli in qualche progetto.

 

C’è, infine, l’uomo isolato, inviso alla cultura italiana che si vendica sposando la causa di Forza Italia con un endorsement che gli dà il colpo di grazia, in anni in cui Berlusconi era il demonio, e non ci si scherzava su come oggi. Zeffirelli diventa senatore non per amore del Cav., ma per il gusto della contrapposizione, dello sberleffo, della libertà di poter scegliere l’opposto di quel che ci si aspetta da un artista. Perché più di ogni cosa Zeffirelli detestò il conformismo, come spiega bene nel documentario, il conformismo come scorciatoia e annichilimento della libertà. Fu insomma un grande irregolare, bravissimo a litigare con tutti, innamorato dell’arte e della vita nelle loro forme più gioiose e libere, certo incapace di venire a patti con la tetraggine del comunismo e l’idea di un’arte al servizio del popolo o della rivoluzione.

Ecco, l’impegno, per esempio, da noi metro e misura del valore di ogni artista, si prende una gran lezione da Zeffirelli che nel 1966 ha l’idea di infilare Richard Burton (facendolo parlare in italiano) in un memorabile documentario sull’alluvione di Firenze che catturerà l’attenzione del mondo intero e sarà decisivo nella raccolta fondi per la ricostruzione. Non a caso, “Conformista ribelle” parte proprio da qui.
 

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