Gran Milano

Lombardia, la riforma della sanità c'è. Ora vanno trovate case e personale

Daniele Bonecchi

Letizia Moratti vince il lungo braccio di ferro con la sinistra. Territorio e fondi europei, ma ci sono due rischi: la gestione del personale e gli spazi da ridefinire. Tutte le incognite della riforma della sanità approvata ieri

Ci sono voluti due prodigi per approvare la nuova legge sulla Sanità lombarda, varata ieri, con l’opposizione della sinistra che come sempre grida contro “i privati” (anche se nel disegno Moratti non è la sanità privata ad essere al centro): la determinazione di Letizia Moratti, che non si è persa d’animo a riscrivere e difendere il talismano del welfare territoriale, nell’era della pandemia e “l’aiutino” dell’Europa (Pnrr) con 2,69 miliardi da spendere, come e in che tempi si vedrà. Ci sono voluti sedici giorni di sedute anche notturne e centosedici ore di dibattito, per giungere a un’approvazione sostenuta dalla sola maggioranza.

 

Dopo aver vinto la battaglia vaccinale e aver portato la Lombardia alla migliore performance nazionale sui vaccini, e con una situazione sanitaria tornata sotto controllo, l’obiettivo – ambizioso anche nella tempistica – della vicepresidente e assessore al Welfare è quello di "aggiustare”, o meglio riformulare, il campo della sanità territoriale, già debole ai tempi formigoniani, divenuto il vero buco nero delle riforme Maroni-Gallera ed esploso con il Covid. L’impostazione ha una sua razionalità, per funzionare sono indispensabili i fondi straordinari del Pnrr, ma anche un innesto di personale che appare come la sfida più difficile. Per far funzionare la riforma dunque servirà molta pazienza perché – tra i tanti problemi da risolveredue sembrano assai tosti. La gestione del personale, in molta parte inesistente, soprattutto quello infermieristico ma anche quello medico, e già molto provato da venti mesi di Covid. Il secondo problema è la dislocazione sul territorio delle Case della comunità, il mantra del progetto Moratti, da negoziare casa per casa coi sindaci. Il rischio è che vengano costruite le quattro pareti dell’edificio (la Casa della comunità) ma che all’interno (e all’esterno, visto che il rapporto col territorio è fondamentale) manchi la materia prima: il personale sanitario e non.

 

“Per ora non c’è stato nessun contatto con l’assessore al Welfare, successivo alla nostra lettera aperta di ottobre”, spiega al Foglio Paola Pedrini, segretaria del Fimmg, il “sindacato” dei medici di famiglia. Nella missiva inviata all’assessore Letizia Moratti si manifestava “amarezza” per il “disconoscimento del nostro lavoro”. “La riforma sanitaria è un momento critico perché va definito, oltre alle strutture, cosa si farà all’interno delle Case e degli ospedali di comunità. Ci dovrà essere un confronto continuo tra Regione e i medici di famiglia – fa notare la dottoressa Pedrini – perché queste Case di comunità non rimangano spazi vuoti e non vengano sprecati i finanziamenti. Il confronto coi professionisti che saranno impegnati sul territorio è essenziale, anche perché si è parlato tanto di potenziamento della Sanità territoriale, ora è il momento di metterlo in atto. La situazione della pandemia ha creato diversi problemi, innanzitutto le liste di attesa, già significative e oggi ancora di più”. La segretaria dei medici di base indica una strada: “E’ importante avviare la telemedicina, con la possibilità anche per il medico di famiglia di fare esami di primo livello nel proprio ambulatorio, con un riconoscimento per fare in modo che i pazienti, per lo più cronici, non debbano pagare questa prestazione in libera professione”. La carenza strutturale di medici di base si fa sentire. “Il potenziamento del personale di supporto al medico di famiglia è essenziale. Ogni medico deve essere affiancato da personale amministrativo e infermieristico a tempo pieno, come succede nel resto d’Europa. Solo così riusciamo a fare della medicina d’iniziativa e prendere in carico i nostri pazienti cronici per fare una prevenzione più capillare”. Ma, appunto, è il personale che scarseggia, e di questo la legge di riforma sembra occuparsi solo teoricamente. “Le Case di comunità – prosegue Pedrini - non sono necessariamente sinonimo di medicina territoriale perché una struttura ogni 50 mila abitanti è distante da certi comuni e certi pazienti”, basta pensare alle valli della bergamasca, della Valtellina, “i piccoli comuni rischiano di svuotarsi dei medici dei quali c’è una carenza allarmante”, lamenta la segretaria del Fimmg. Medici e infermieri sono il cuore del radicamento territoriale.

 

E’ Carmela Rozza, consigliera regionale Pd (già infermiera professionale) ad alzare la voce: “C’è una mortificazione delle professioni sanitarie non mediche nella riforma. Nella legge si spiega che sarà il medico di medicina generale a dirigere la casa della comunità ma non si capisce come. La giunta non ha le idee chiare sui servizi che queste case dovranno offrire, se la casa è un luogo di primo accesso per il paziente ma chi lo accoglie, chi ne legge i bisogni?”, si domanda la Rozza che propone: “Dovrebbe essere un infermiere qualificato che ha gli strumenti per comprendere i bisogni del paziente”. “Non è chiaro dove si troverà il personale da impiegare – insiste Isa Guarneri, segretaria della Fp Cgil – tra l’altro il grosso è impegnato nelle strutture per la campagna vaccinale. Pensare di organizzare la riforma con lo stesso personale di oggi è pura fantasia.   Poi c’è il risotto delle Case: “E’ fondamentale potenziare l’offerta di medicina territoriale, non basta la razionalizzazione delle risorse esistenti”, chiarisce al Foglio Lanfranco Bertolè, assessore alla Salute voluto da Beppe Sala proprio per declinare la riforma sul territorio cittadino. “Servono persone qualificate, ora va aperto un confronto con la Regione e l’Ats per definire la tipologia del personale da mettere in campo”.

 

Il secondo nodo da sciogliere riguarda gli spazi da ridefinire. Milano ospiterà 24 strutture in totale: 15 Case e 9 ospedali. In media, una Casa di comunità ogni 50 mila abitanti; un Ospedale di comunità per ogni Ass attiva sul territorio. “Nei prossimi giorni incontreremo con sindaco Ats e i medici, per valutare le ipotesi che riguardano le 24 case di comunità che dovranno rispondere ai bisogni dei cittadini, tenendo conto dei trend demografici, anziani compresi, ed epidemiologici. Dovremo definire queste sedi che saranno all’interno di luoghi di proprietà del sistema sanitario regionale o nelle strutture messe a disposizione del Comune”. Milano sta crescendo ed è un tutt’uno con la città metropolitana. L’amministrazione avrà un’attenzione particolare per le periferie e per l’integrazione tra servizi sanitari e servizi sociali. “Trovo molto interessante l’ipotesi di Gorla, dove c’è la possibilità di costruire una Casa di comunità che dovrebbe avere al suo interno un piano (su cinque) dedicato ai servizi sociali. Questo – prosegue l’assessore – ci permetterebbe di trasferire i nostri servizi sociali di territorio, senza pensare però al co-outing, perché l’obiettivo deve essere l’integrazione. Anche il municipio 8 ha fatto una proposta interessante, che riguarda la struttura di via Aldini (a Quarto Oggiaro)”. E così torna “l’ossessione”, meno immaginifica del passato, per le periferie.

 

Per Letizia Moratti inizia la fase della “messa a terra” della sua riforma, e di una negoziazione complessa. Molto dipenderà anche, all’arrivo dei fondi del Pnrr, dalla capacità strategica dell’Italia – dunque del governo – di programmare, finalmente, il futuro della Sanità: servono medici, servono infermieri (le Rsa, tanto per dire, sono quasi tutte sotto organico). Servono laurea scuole, riforme nei percorsi di formazione. La Lombardia prova a partire, ma non potrà fare da sola.

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