La copertina del Foglio Review raccontata da Francesco Bongiorni

Gaia Montanaro

L'illustratore che l'ha disegnata ci presenta "Estate", la cover del nuovo numero del magazine del Foglio, in edicola da sabato 29 luglio

Nelle illustrazioni di Francesco Bongiorni una delle chiavi più importanti è la sorpresa, trovare una prospettiva inedita con cui raccontare. L’estate da lui immaginata per la cover della Review è proprio così: inaspettata, particolare e con un tocco di mistero.

  

Abbiamo chiesto a Francesco Bongiorni di raccontarci la sua illustrazione dal titolo “Estate” e del mondo sottosopra che si cela nel fondo del mare.

 

Qual è stato il processo creativo che l’ha portata a illustrare la cover del Foglio Review, “Estate”?

Il briefing che ho ricevuto era abbastanza ampio, si parlava infatti genericamente di estate. Nulla di troppo chiuso e direttivo. Come approccio lavorativo solitamente io ricerco il sottosopra, cerco di ribaltare ciò che è convenzionale. Ci sono cose possibili ma improbabili e sono le cose che mi interessano di più. Parlando di sottosopra, questa ricerca del non convenzionale mi ha fatto concentrare non sulla spiaggia - nostro immaginario classico legato all’estate - ma sono andato in fondo al mare, ribaltando la scena. Uno scenario più particolare e misterioso. Mi piace sorprendere chi guarda il mio lavoro: cerco di portare un approccio che esuli dallo scontato.

   

Si è immaginato una storia che coinvolge la persona ritratta in copertina? Un prima o un dopo di quel momento fermato nella sua illustrazione…

Più che il prima o il dopo, studio l’attimo che voglio rappresentare facendomi tantissime domande. Mi pongo dei quesiti per capire come sta quel personaggio o chi lo circonda. Cosa sta provando? Ha freddo, caldo? Cosa pensa? Come sta? È sereno? Queste domande mi aitano a scavare nell’animo del personaggio: dalle risposte che mi do, l’immagine comincia a scolpirsi. Se la risposta è che è rilassato, la postura del personaggio sarà più distesa, la figura si “arrotonda”, piano piano si libera delle varie tensioni. Il processo è quindi pian piano di dissipare le varie domande, di liberarmene per esclusione. Il foglio bianco in questo senso è il quesito assoluto: dandomi varie risposte, comincio a scavare, ad andare verso il fondale, il nucleo dell’illustrazione. In questo caso: chi? un palombaro, dove? nel fondo del mare. E pian piano l’immagine va a crearsi grazie a questo percorso. Quando gli scultori scolpiscono, cominciano a sbozzare il blocco di marmo per permettere all’essenza della loro arte di emergere e prendere forma. Io mio avvicino al nucleo tramite le domande che fanno da bussola – sono come lo scalpello. In questo senso, sento una similarità tra questi processi creativi.

  

Nelle sue illustrazioni editoriali, che tipo di rapporto si crea tra parole e immagini? L’illustrazione aggiunge contenuto e/o punto di vista? Come illumina ciò che il testo restituisce?

Parto da un dato personale. Io vivo da quindici anni in Spagna e quindi sono esperto di tapas. L’illustrazione per me è come una tapa: un bocconcino che ti fa provare un sapore ma senza essere ripetitivo. Nel boccone c’è già tutto, è tutto lì. L’illustrazione è simile: un piccolo boccone che deve convincere il lettore ad approfondire quel contenuto. Un’illustrazione non può infatti contenere dentro di sé troppe informazioni, non è un grande piatto da portata. È una tapa, un piccolo boccone di sapore che ti convince ed andare avanti, a leggere tutto il contenuto.

Nel mio lavoro editoriale, quando viene mandato un articolo esso ha in sé il messaggio, lo contiene ma non è il messaggio. Ha tante parole, contiene molte suggestioni e direzioni; io comincio a togliere le parti (al fine del mio lavoro) marginali e che approfondiscono troppo, finché non arrivo al nucleo del messaggio. Arrivo a due, tre parole chiave con cui comincio a lavorare. Inizio a tradurre le parole da un linguaggio all’altro. Queste due -tre parole chiave le traduco nel linguaggio visivo e le rendo adatte ad un altro tipo di comunicazione e di fruizione.

  

Lei proviene da una famiglia dove l’arte era di casa. Se e come l’ha influenzata questo tipo di contesto?

Ne sono stato profondamente influenzato, è stato un terreno fertilissimo. Il ricordo più bello è quando mi mettevo a disegnare con mio fratello e arrivava mio padre che disegnava con noi, stregandoci con la sua bravura. Il nostro modo di giocare era metterci a disegnare. Più avanti ho iniziato anche ad avere un punto di confronto con vari cugini, bravissimi disegnatori, e ho scoperto una sorta di fumetto ante litteram fatto da mio nonno durante il periodo bellico, il suo diario di guerra dalla Grecia e dall’Albania, pieno di ironia e di bellezza. Tutto ciò è stato essenziale per me. Al di là di alcuni strumenti tecnici, il lascito più importante che la mia famiglia mi ha trasmesso è stato avermi introdotto all’importanza della curiosità. Questa è il motore più bello e profondo che abbiamo, il carburante emotivo che vivifica tutto. E la curiosità è tanto più bella quanto più è ampia, eterogenea. I miei interessi infatti vanno ben al di là dell’arte e del disegno, sono molto più trasversali. Questo essere “onnivori” fa si che anche il mio lavoro ne benefici. Tempo fa, ad esempio, mi sono messo a fare uno studio sull’origine della mia famiglia, realizzando un albero genealogico. Questo lavoro mi ha appassionato molto e ha nutrito la mia curiosità tanto che quando sono tornato a disegnare ero più creativo. E spesso queste suggestioni così varie hanno avuto modo di ritornare nelle mie illustrazioni, di emergere inaspettatamente. Gli ambiti, insomma, si contaminano virtuosamente.

 

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