Oggi il Foglio ha una copertina da collezione

Francesco Stocchi

Il gol di Bonucci nella finale di Euro2020 interpretato dall'artista Francesco Clemente

Chi è Francesco Clemente l’artista che ha disegnato la nostra copertina

 

Francesco Clemente nasce sotto il cielo di Napoli nel 1952 da famiglia di origini aristocratiche. Le prime attenzioni le rivolge verso lo spazio libero che occupa la poesia, fonte di immaginario sensibile che caratterizzerà la formazione di un linguaggio personalissimo. Non ha neanche vent’anni che si trasferisce a Roma, dove alle direttive dell’architettura preferisce le non regole di cui si nutre l’arte. Frequenta artisti, anch’essi da poco sbarcati nella capitale. Su tutti, Luigi Ontani, con il quale presenta le prime performances all’Attico, e Alighiero Boetti che lo porta in Afghanistan per trovare “il sogno di un mondo dove non c’era niente di più alto della dignità di un gesto”. Agli scenari pre-cristiani afgani preferisce la levitazione dello 0 indiano dove si reca per la prima volta nel 1973. Seguono visite regolari, apre uno studio a Madras per assimilare l’esattezza dell’universo indiano, i rituali religiosi e le sue tradizioni popolari. Nei suoi ricorrenti ritorni in Italia espone in varie gallerie, da Massimo Minini a Brescia, Franco Toselli a Milano e Gian Enzo Sperone a Torino e Roma. Sperimenta varie tecniche ma predilige i lavori su carta, spesso organizzati in cicli pittorici che raccontano la forma umana (in particolare corpi di donne e autoritratti) in relazione al mito, la sessualità e la spiritualità che si può cogliere lì dove meno te lo aspetti. Le atmosfere sono oniriche, alimentate da un uso avvincente del colore, rapido e libero come uno sguardo. Le suggestioni che lo animano provengono dalla tradizione orientale e l’occidente classico che Clemente unisce alla cultura dei mass media, il tutto animato dall’amore verso il paradosso.

 

Arrivano gli anni 80 e quando Clemente sbarca a New York gode di un’attenzione internazionale quale giovane artista di riferimento. Arrivano prepotentemente le prime mostre internazionali e l’attenzione verso il suo lavoro coincide con un ritorno d’interesse verso la pittura. Giovani artisti europei si cimentano in una nuova figurazione chiamata a volte “Neo-Espressionismo” quando associata ai pittori tedeschi, oppure identificata nella Transavanguardia corrente italica di Achille Bonito Oliva che si impone nel mondo nel 1980 in occasione di “Aperto”, sezione dedicata all’arte emergente della Biennale di Venezia. New York diviene la sua città d’adozione, in un periodo dove i loft di Soho sono il centro dell’universo artistico mondiale. Espone per la prima volta negli Stati Uniti presso la galleria Gian Enzo Sperone in una collettiva con Sandro Chia ed Enzo Cucchi, seguita dalla prima personale con la galleria Annina Nosei. Nel 1983 presenta presso la Whitechapel Art Gallery di Londra il suo primo ciclo di dipinti di grande formato intitolato “Le quattordici stazioni”. L’anno successivo collabora a una serie di opere insieme ad Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat, esperienza che lo identifica con una città che al meglio esprime quella mitologia contemporanea che ha caratterizzato gli anni 80 (nel 1985 realizza vari murales nel mitico Palladium nightclub).

  

In una decade intensa dove è vietato guardare indietro inizia a prendere parte alle più importanti rassegne collettive internazionali quali la Biennale di Venezia (1988, 1993, 1995 e 1997), Documenta di Kassel (1992 e 1997), Biennale del Whitney Museum, New York (1997). Tra le mostre personali di maggior rilievo, quelle presso il Philadelphia Museum of Art (1990), il Sezon Museum of Art di Tokyo (1994) e la retrospettiva del 1999 al Guggenheim Museum di New York. Instancabile viaggiatore, mosso dalla curiosità che si annida nelle nuove scoperte, ritrova suggestioni riconducibili nel suo lavoro, in Giamaica, come nel New Mexico. Clemente continua a dividere il suo tempo tra New York, Madras e Roma.

 

Uno stile personale, quasi intimista, nel guardare l’essere umano, accompagnato da un’aura irrazionale che non consente allo spettatore di comprendere o poter spiegare le sue immagini. Vanno semplicemente contemplate.

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