Il progetto del ponte sullo Stretto del 1950 (foto LaPresse)

Innamorarsi dell'apertura. Manifesto per un futuro più allegro

Nadia Terranova

Porti, ponti, muri. Chiudersi significa scappare dalla realtà ma ci sono isolamenti che vanno amati, capiti e custoditi e che non possono essere ostaggio di hashtag. La vita di una scrittrice antipontista al tempo delle soffocanti politiche anti tutto

L’ultima volta che avete sentito parlare del ponte sullo Stretto è stato per bocca del presidente della regione Sicilia, Nello Musumeci: “Non è un capriccio ma una esigenza infrastrutturale essenziale per completare la rete che dal cuore dell’Europa deve arrivare fino a Palermo”, ha detto. Voi forse non ricordate dove eravate in quel momento ma io, fiera e capricciosa antipontista da sempre, lo ricordo bene, perché guarda caso ero su un ponte: leggevo le notizie dal mio telefono mentre attraversavo ’u rettifilu, il viadotto umbertino che collega Siracusa a Ortigia, l’isola greca dove è nata la civiltà, e tagliando il mare a destra e sinistra alzavo gli occhi dallo schermo al cielo: ancora tu, ma non dovevamo vederci più? La prima volta che avete sentito parlare del ponte sullo Stretto non eravamo nati, né voi né io, ma la civiltà invece sì, era nata da un po’. Era il 251 a.C. quando i romani, vittoriosi sui cartaginesi, tronfi e megalomani come solo i romani sanno essere, vollero costruire una via sulle acque, una via fatta di barche e di botti per trasportare dalla Sicilia al continente centoquaranta elefanti sottratti al nemico. Lo raccontano Strabone e Plinio il Vecchio e tuttavia non siamo sicuri che sia successo davvero, forse fu una fantasticheria, non se ne fece nulla o quel che si fece fu presto smobilitato per non disturbare le navi in transito nello Stretto.

 

La prima volta che avete sentito parlare del ponte sullo Stretto non eravamo nati, né voi né io, ma la civiltà invece sì. Era il 251 a.C.

Se ponte dev’essere, se volete prenderci per sfinimento, che sia in grande stile, che sia fatto di circo e mitomania

Quelle navi, che non hanno mai smesso di fare avanti e indietro tra la Sicilia e la Calabria, appartengono oggi a una società chiamata “Caronte” il cui amministratore delegato, Vincenzo Franza, si è detto d’accordo con Musumeci, il ponte si può fare, anzi bisogna affrettarsi, non si capisce perché abbiamo aspettato migliaia di anni. Perfino lui, che vive di traghetti, avverte un bisogno di esigenza infrastrutturale, quell’Esigenza Infrastrutturale che ci portiamo dentro e contagia all’improvviso chiunque governi l’Italia per cinque minuti: se non fai una promessa di ponte sullo Stretto non sei nessuno, deve portare anche un po’ sfiga non farla, un istante dopo essersi accaparrato un pezzetto di potere il politico più accorto dichiara che il ponte si farà e i lavori saranno inaugurati sotto di lui, anzi spesso lo dichiara anche un istante prima, mentre fa campagna elettorale. I pochi che non si sono lanciati a promettere “un paese di pilu e cemento armato” (è Cetto Laqualunque, ma potreste essere voi, domani, se il caso vi mettesse in odore di vittoria) hanno fatto una brutta fine. Allora quel giorno io, messinese, antipontista per corredo genetico e in transito su un ponte siracusano, stavo per scagliare il telefono tra i flutti che lambiscono Ortigia. Poi, per fortuna, leggendo bene ho visto anche un’altra notizia, il presidente Musumeci si è accorto che in Sicilia manca un grande parco giochi e sull’isola non ci si può divertire in grande stile. E’ stato allora che ho unito i puntini e ho avuto la prima tentazione pontista della mia vita: tre chilometri e mezzo di barche e botti di legno con gli elefanti africani a camminarci sopra in fila indiana, e poi centosette acrobati, venticinque nani, un’intera compagnia di ballerine, bambini con trombette e nasi di cartone a lanciare coriandoli sulle onde, eccoli il ponte e il parco, due Infrastrutture Essenziali in un colpo solo, e via con la valorizzazione del territorio per far splendere la mia regione di nascita, lo Stretto. Non credo che Musumeci pensasse a un simile scenario, ma sono pronta a suggerirglielo: abbiamo due città (Messina e Reggio Calabria), due mari (Jonio e Tirreno), abbiamo miti locali, greci e bretoni (Scilla e Cariddi, le Sirene, Cola Pesce, Fata Morgana, il nocchiero Peloro), ma potremmo passare alla Storia per aver fatto sbiadire Disneyland. Se ponte dev’essere, se volete prenderci per sfinimento, che sia in grande stile, che sia fatto di circo e mitomania, due campionati in cui gli italiani sanno competere. Che siano elefanti e barche di legno, per superare gli choc di questi anni, compresi quelli in cui andava di moda che il collegamento non si immaginasse sopra ma sotto l’acqua (“e se il ponte non basta faremo anche il tunnel, perché un buco mette sempre allegria!” è sempre Cetto Laqualunque ma possiamo virgolettare tutti, da Carlo Magno a Matteo Renzi, per l’epidemia di Esigenza Infrastrutturale la Storia non ha mai trovato il vaccino).

 

Intanto il ponte umbertino era già alle spalle, anche perché è ben più corto di quell’altro che da Strabone in avanti viene sognato per la mia Messina. Dalla terraferma all’isolotto basterebbero tre elefanti e mezzo, al massimo quattro: poca roba, Siracusa, mi dispiace ma hai perso. Ero dunque arrivata in Ortigia e pioveva sui negozi chiusi, sui pochi turisti per strada, sull’ombra di un gatto nero nel tempio di Apollo; com’è bella l’isola staccata dall’isola, e com’è ancora più bella fuori stagione, solitaria, spettrale e vagamente ossessiva, se solo fossi riuscita a liberarmi le orecchie dalla voce insistente di un amico di Alcamo: perché ’u rettifilu ti va bene e quello a casa tua invece no? Che vi ha fatto di male il ponte a voi antipontisti dello Stretto, siete fissati, maniacali, un povero ponte è segno di solidarietà e di accoglienza, lo dice pure il Papa che i muri dividono e i ponti uniscono, diceva la voce.

 


Illustrazione di Makkox


  

E un altro amico scrittore, venuto a presentare il suo libro a Messina, guardando il mare dalla strada panoramica si divertiva a provocarmi: “I have a dream…”. Chissà cosa direbbe l’amico alcamese del mio ponte di elefanti, forse saremmo d’accordo per la prima volta, allora dovrei telefonare anche a quell’altro: “I have a dream, avviamo il circo!”. Ma avevo appena finito di leggere Muri maestri di Michela Monferrini (La nave di Teseo), un bel libro che raccoglie storie di muri intelligenti, muri che anziché dividere uniscono, e mi era rimasto il desiderio di scrivere un libro al contrario anch’io, storie di ponti scriteriati, ponti che anziché unire dividono. Perché il ponte sullo Stretto unisce solo per finta, in realtà divide ogni cosa di cui m’importi: divide la mia città, definitivamente, dal resto del mondo, se non lo capite vuol dire che non ci siete nati. Io sì, e ho passato tutta la vita a sentirmi dire “Messina? Non la conosco, però per andare in Sicilia ci sono passato”. Da piccola pensavo che Cisonopassato fosse il suo secondo nome, un po’ come certi luoghi sono denominati “Marina” o “Superiore” e “Inferiore”. Messina Cisonopassato.

 

Che i viaggiatori si fermino, scoprendo che c’è un universo sulle coste occidentali e orientali di una città pur urbanisticamente discutibile: i terremoti, ultimo quello del 1908, l’hanno distrutta ed è stata ricostruita di malagrazia, ma ovunque resistono anarchici angoli di persistente bellezza

I politici che parlano del ponte sognano, come il presidente Musumeci, di creare una rete che “dal cuore dell’Europa porti fino a Palermo” e noi li ringraziamo per il pensiero ma forse non si sono accorti che quella rete esiste già, è l’aeroporto di Punta Raisi. A non essere collegato al resto del mondo invece è lo Stretto, luogo di rara bellezza sconosciuto dagli stessi siciliani, che si spostano con l’aereo da Catania, Comiso, Palermo, e se qualche volta devono prendere il traghetto restano colpiti pure loro da tanta sottovalutata scenografia. Anziché pensare al modo più veloce per attraversare Cisonopassato e lasciarsela alle spalle, noi antipontisti proponiamo di studiare la via migliore per far sì che i viaggiatori si fermino, scoprendo che c’è un universo sulle coste occidentali e orientali di una città pur urbanisticamente discutibile (i terremoti, ultimo quello del 1908, l’hanno distrutta ed è stata ricostruita di malagrazia, ma ovunque resistono – ad avere tempo e occhi per vederli – anarchici angoli di persistente bellezza). Non siamo contro le infrastrutture essenziali in assoluto, siamo contro l’idea, nata duemila anni fa da romani mitomani (considerato com’è andata a finire oggi, con la viabilità romana, direi che abbiamo fatto bene a non fidarci), che l’Infrastruttura Essenziale per eccellenza sia il ponte sullo Stretto. Altre ben vengano: in Sicilia manca tutto, mancano autostrade e ferrovie, mancano i treni, mancano gli acquedotti e la sera, in estate, ancora patiamo la siccità. Non siamo contro la connessione: siamo convinti che la Sicilia sia già un’isola iperconnessa proprio perché è un’isola, qualche millennio di storia lo documenta, siamo stati greci, bizantini, ostrogoti, arabi, normanni, svevi, angioini, aragonesi e non abbiamo avuto bisogno di nessun ponte né per accogliere né per cacciare. Siamo rimasti isolani mentre eravamo attraversati da chiunque: “Siciliani, mulatti essi stessi non per errore di una madre baldracca ma per storia di generazioni, nati da incroci di levantini malfidi, arabi sudaticci e ostrogoti degenerati, che hanno preso il peggio di ciascuno dei loro ibridi antenati, dei saraceni l’indolenza, degli svevi la ferocia, dei greci l’inconcludenza e il gusto di spaccare il capello in quattro” (è Umberto Eco nel Cimitero di Praga). Nella nostra cucina teniamo il cuscus africano e la crema chantilly, un marzapane da fare invidia a Lubecca e i dolci arabi al miele e ai pistacchi. Il nostro ponte (dal greco póntos, “flutto salato”, un dio del mare) esiste già, ed è il Mediterraneo. E’ grazie a lui che siamo rimasti vivi, e legati alle più grandi civiltà della Storia: “Questi contatti culturali si stabilirono e si mantennero anche quando i rapporti politici peggiorarono o degenerarono e ognuna delle culture prestò alla civiltà occidentale uno specifico e originale apporto. Si può forse azzardare l’idea che le tensioni politiche generarono bensì scontri gravissimi ma che invece sul piano culturale quelle stesse tensioni causarono una sorta di pluralismo culturale ricchissimo”, scriveva più di dieci anni fa il sociologo Umberto Cerroni sulla rivista il Dubbio. Altro che #stopinvasione, se hashtag dev’essere che sia #sìinvasione. Il nostro no al ponte non è chiusura ma apertura, è l’antiBrexit, è l’antisoffocamento, è l’antimorte.

 

Se hai governato l’Italia per cinque minuti non puoi non essere stato colto da quel bisogno lì. Il popolo ha fame? Dategli le briosce e le fondamenta del primo pilastro. Ma non è una questione solo siciliana, è un fatto nazionale. Da quando esiste la televisione, il ponte si porta con tutto ciò che fa audience

La vita di una donna antipontista è complessa, l’avrete capito. E’ complesso spiegare ogni volta le motivazioni, far capire che il no al ponte significa che vogliamo più connessione e non meno connessione. Tocca ricominciare sempre da capo, è una vitaccia.

 

Per quanto i non nati sullo Stretto possano essere disinteressati all’argomento, ricorderete quando a cena, mentre innocenti tiravate su il brodo, a tradimento un politico appariva in televisione a spiegarvi il bisogno di Infrastruttura Essenziale che non sapevate di avere dentro. Ecco, immaginate noi antipontisti con la pastina di traverso: ancora tu, ma non dovevamo vederci più? La serata migliore, mi dispiace per il presidente Musumeci che pure ha provato a intrattenermi con ballerine ed elefanti, resta quella dell’imbonitore per eccellenza, Silvio Berlusconi: a “Porta a porta” disegnava su una cartina le grandi opere da realizzare (mio simile, mio fratello: quando a cena ho bevuto troppo finisco anche io a scarabocchiare sulle tovagliette del ristorante, e mi arrabbio molto se i miei commensali non mi danno retta). Fra tanti dimenticabili tratteggi di biro, brillava l’Infrastruttura Essenziale. Solo lei fu ripresa dai giornali il giorno dopo, non solo perché, modestamente, rimane la più fascinosa fra le leggende, ma anche perché Berlusconi doveva sottrarla alla chetichella a Massimo D’Alema che aveva cercato di appropriarsene l’anno prima, a sua volta strappandola ad Antonio Di Pietro, ministro dei Lavori pubblici di un governo Prodi che a sua volta l’aveva rubata a Publio Fiori, ministro dei Trasporti di un governo Berlusconi, e qui potremmo chiudere il cerchio, anzi no: perché segnali importanti del bisogno di Infrastruttura Essenziale erano già venuti da un governo Andreotti e dall’Iri con presidente Prodi, e allora il cerchio chiudiamolo qui, anzi no: perché già c’erano state le promesse di Bettino Craxi e Francesco Cossiga, e prima ancora di Benito Mussolini, dei viceré spagnoli, dei consoli romani, e capite bene che il cerchio potrebbe non chiudersi mai, se hai governato l’Italia per cinque minuti non puoi non essere stato colto da quel bisogno lì. Il popolo ha fame? Dategli le briosce e le fondamenta del primo pilastro, insieme alla granita dentro cui inzuppare tutto. Ma non è una questione solo siciliana, è un fatto nazionale, direi mondiale. Da quando esiste la televisione, il ponte si porta con tutto ciò che fa audience, dagli elefanti per i kolossal ai plastici di Vespa, una puntata di “Chi l’ha visto”, un balletto di “Amici”, la finale del festival di Sanremo. I megalomani del ponte io li capisco, giuro, li capisco tutti: se ti accorgi di quant’è magnifico lo Stretto non puoi non emozionarti e sognare in grande, altro che Niagara, altro che Himalaya. “Sopra i flutti o sotto i flutti la Sicilia sia unita al continente” esclamò l’onorevole Giuseppe Zanardelli nel 1876, perché non c’è concorrente straniero che Scilla e Cariddi non siano capaci di sfidare, e allora facciamo un tunnel come nella Manica, facciamo un ponte più lungo di quello di Akashi, facciamone uno qualsiasi e nessuno si ricorderà più di Brooklyn. Messina e Reggio come l’America, come il Giappone, come la Gran Bretagna, facciamolo a forma di Cola Pesce con le squame smaltate che brillano di notte, facciamolo con le sei teste di cane di Scilla al posto delle campate, facciamolo firmare da Dolce e Gabbana con i guardrail in pizzo nero, facciamo una galleria a forma di cannolo con la ricotta. Sogniamo, sogniamo: è gratis finché non arriva un sisma a ricordare che lo Stretto non è esattamente il posto più sicuro dove progettare un’Infrastruttura Essenziale. Ma chi se ne importa: appena una decina d’anni dopo il terremoto del 1908 l’ingegner Emerico Vismara presentava imperterrito a Firenze il nuovo disegno di una galleria subacquea. Per il ponte è sempre il giorno della marmotta, anche la mattina dopo una catastrofe.

 

Facile la vita degli antipontisti, finché si può fare ironia sulle iperboli altrui. Ma, come in ogni militanza, non si può ignorare la verità: le arringhe degli amici possono essere più imbarazzanti di quelle dei nemici. Il nostro trasversale movimento pullula di sostenitori della giusta causa per le motivazioni sbagliate, ultimo Matteo Salvini, fino a poco tempo fa contrario a finanziare un progetto meridionale perché #primailnord: chi si rifiuta di villeggiare a Jesolo si metta pure in coda per Caronte, buona sorte sulla Salerno-Reggio Calabria. Per fortuna, a convincere Salvini a passare dall’altra parte, quella sbagliata in assoluto ma giusta per la nostra integrità, sono bastati pochi giorni di carica istituzionale, da quando è ministro ha cominciato a dichiarare che il ponte continua a non essere prioritario ma forse invece sì, ora che ci pensa, vediamo cosa si può fare. E’ questione di poco, il virus è già nell’aria; appena ha proposto un referendum calabro-siculo per interrogare gli indigeni sulla loro volontà, ho avuto la certezza che il bisogno di Infrastruttura Essenziale presto avrà il suo selfie sullo Stretto, buongiorno amici pilastri e baci ai rosiconi. Che sollievo.

 

E’ questione di poco, il virus è già nell’aria; appena il ministro Salvini ha proposto un referendum calabro-siculo per interrogare gli indigeni sulla loro volontà, ho avuto la certezza che il bisogno di Infrastruttura Essenziale presto avrà il suo selfie sullo Stretto, buongiorno amici pilastri e baci ai rosiconi

In Ortigia, dunque, rimuginavo. Non smetteva di piovere e nel pomeriggio si sarebbe tenuta una presentazione del mio libro alla quale non sarebbe venuto nessuno: chi può aver voglia di andare su un’isola fuori stagione, mentre fischia il vento e urla la bufera, per sentir parlare di un romanzo? Quelle stesse strade che in primavera, estate e autunno brulicano fino a scoppiare erano deserte, umidicce e scivolose. Visitare un’isola in inverno è un’idea romantica, “ho avuto un amante a Ortigia”, mi raccontò una volta un’amica, e giù un immaginario eroticissimo di alberghi vuoti in inverno con il mare in tempesta che ulula e bussa alle finestre, non sembrava vero neanche a lei, diceva, sembrava un film, un romanzo d’appendice. In effetti, la letteratura è piena di fedifraghi che si rifugiano in luoghi circondati dall’acqua dove la distanza dai matrimoni e dalla routine è segnata anche metaforicamente da confini liquidi; in Un adulterio di Edoardo Albinati (Rizzoli), i protagonisti Erri e Clementina non si sarebbero desiderati e straziati con tanta sofferenza se lui le avesse detto “ti voglio scopare, fuggiamo su un’isola in cui tuo marito e mia moglie possono raggiungerci pure dal cuore dell’Europa”. Bisogna considerare anche le necessità di noi romanzieri, oltre che antipontisti. Non c’è bisogno di scomodare Gesualdo Bufalino, Leonardo Sciascia, Giuseppe Tomasi di Lampedusa e tutto il corredo cromosomico della sicilitudine e dell’isolitudine per capire che l’ultima cosa di cui può aver voglia un’isola è che la sua scontrosità e il suo fascino siano disturbati da un’autostrada che ti porta gli scocciatori dentro casa. Noi isolani siamo abituati a scoraggiarli (che facciano pure le vacanze a Jesolo, grazie), e quelli che fra noi sono scrittori vogliono costruire architetture narrative sulla distanza dalla terraferma. Abbiamo poche, ma solide certezze. Anzi, l’isola non basta neanche più: per essere sicuri che alle presentazioni non venga nessuno, ce ne andiamo sull’isola dell’isola. Però stavolta qualcosa non tornava, Ortigia era un’isola fino a un certo punto, ormai era collegata da un ponte, anzi due e c’era stato persino il progetto del terzo, eppure la mia presentazione sarebbe stata ugualmente deserta. Inoltre lì la mia amica aveva vissuto una straordinaria storia di sesso, proprio come nel libro di Albinati, proprio come se il ponte umbertino non ci fosse stato; anzi, se non ci fosse stato, nei giorni di maltempo le barche non sarebbero partite e lei sarebbe arrivata in ritardo all’appuntamento con l’amante, che nel frattempo sarebbe dovuto tornare a casa per mangiare il brodo con la moglie, mentre alla televisione il presidente del Consiglio, uno qualsiasi, avrebbe evocato il bisogno di ponte che ci portiamo dentro.

 


Un rendering del progetto del ponte sullo Stretto


 

Ero confusa. Tanti dubbi mi assalivano tra il duomo barocco e il Tiger di piazza Archimede, dove mi ero rifugiata per comprare un ombrello, ero in Ortigia ma pensavo alla mia città: forse il ponte separatista avrebbe preservato Messina, lasciandola indisturbata nei secoli e consegnandola in via definitiva alla storia come Cisonopassato, le sue furtive bellezze sarebbero rimaste segrete, custodite dal raffinato ed elitario gusto di pochi indigeni. E poi, un romanzo degli amanti clandestini ambientato a Messina sarebbe stato più credibile con ponte o senza ponte? Come mai all’improvviso l’Infrastruttura Essenziale non mi sembrava più il male assoluto, senza che nessuno mi avesse offerto neppure un incarico da sottosegretaria? Il male si era impadronito di me, il ponte – orrore – era in me. Colpa del viadotto umbertino che, dovevo ammetterlo, non toglieva ma aggiungeva fascino alla città, oppure della pioggia, degli antichi greci, del cupo senso di tragedia di Ortigia nel cuore della cattiva stagione. Oppure delle storie di amanti: è sempre colpa delle storie di amanti, da Shakespeare in poi, se arrivano pensieri di morte.

 

Intanto, mentre scrivo questo pezzo, l’ultima volta che avete sentito parlare del ponte sullo Stretto è già diventata la penultima: il sindaco di Messina Cateno De Luca ha dichiarato che l’Esigenza Infrastrutturale deve entrare nel nuovo piano regolatore della città. Questo sindaco è un pontista e viene dopo un altro sindaco, Renato Accorinti, che invece era un ultrà di noi antipontisti: se ripassate da Cisonopassato fermatevi a comprare una cartolina, prendete quella con un uomo barbuto arrampicato e avvinghiato al pilone elettrico in disuso nel borgo di Torre Faro, era Accorinti prima di diventare sindaco, un anarchico pacifista e ambientalista che protestava contro non so più quale dei tanti vagheggiamenti di megalomania pontista. Accorinti è anche uno dei pochi politici risparmiati dall’epidemia di Esigenza Infrastrutturale, dopo essere stato eletto ha continuato a dichiararsi antipontista. Infatti non è stato rieletto. Il nuovo sindaco De Luca, già sindaco di Fiumedinisi, già sindaco di Santa Teresa di Riva, già deputato dell’Assemblea regionale siciliana, non vuole fare la stessa fine e sa qual è la cosa giusta da dire, il bisogno che ci portiamo dentro da solleticare per esorcizzare il pericolo e continuare a promettere ponti per sempre.

 

Ma torniamo a Ortigia. Rimuginavo, dunque, sul male in me mentre mi avviavo verso la libreria e camminando pensavo al rapporto fra isola e accoglienza, a quanto un’isola senza ponte ma con molti porti risulti più aperta di un’isola con un ponte che sovrasta e calpesta un porto (dal greco poreytòs: “che dà passaggio”, casomai qualcuno dubitasse che un porto vale mille ponti). Pensavo a come l’isolamento sia la miglior forma di apertura. Da che mondo è mondo, chi scappa da una guerra, da un passato devastante, da un lutto, da una separazione, da un abbandono, va a nascondersi su un’isola, va a rinascere su un’isola. Nascondersi e rinascere diventano sinonimi: chi vuole una nuova vita non vuole arrivarci dal cuore dell’Europa, vuole che il cuore dell’Europa si dimentichi di lui. Pensavo poi alle orride politiche sull’immigrazione del governo italiano, alle reazioni che abbiamo, a quelle che dovremmo avere, a cosa è giusto fare in tema di porti, ponti, muri; ho un’amica che firma tutti gli appelli per l’accoglienza e ne ho un’altra che non ne firma nessuno, entrambe pensano la stessa cosa, la cosa giusta, ovvero che questo governo fa schifo: la prima ritiene che dobbiamo mettere la faccia ogni volta che possiamo, la seconda che le passerelle servono soprattutto alla vanità di chi le fa. In mezzo ci sono io, che ne firmo qualcuno qualche volta; se sento parlare la prima mi convinco che ha ragione, poi sento parlare la seconda e mi convinco che ha ragione pure lei. In ogni caso, il tempo che uso per condividere gli hashtag dei buoni è lo stesso con cui una volta ho convinto un leghista a non votare più Salvini, certi hashtag finiscono per essere come il ponte sullo Stretto, illudono di unire e invece dividono, i buoni di qua e i cattivi di là, magari è meglio prendere il traghetto e farci salire più gente possibile, intanto si può stordire il nemico e alla fine della traversata avremo fatto almeno un prigioniero. Ma non fidatevi di me, sono solo un’antipontista che ha vacillato di fronte a quattro elefanti.

 

Siamo cresciuti così, sull’isola senza ponte: per essere certi che l’Esigenza Infrastrutturale non si farà mai abbiamo bisogno di evocarla sempre. Il fantasma del ponte fa parte pure lui dello Stretto, è una delle apparizioni per pochi eletti, come il mare colore del vino o il fenomeno di magia ottica di Fata Morgana

Prima della libreria, dicevo, prima di andare incontro alla mia sorte, non potevo non passare dalla fonte Aretusa con il suo papireto, che la maestra delle elementari ci portò a visitare negli anni Ottanta. La ninfa si trasformò in fonte per eludere il corteggiamento di Alfeo, figlio del dio Oceano, che per ricongiungersi a lei si trasformò a sua volta in fiume sotterraneo. Così la fonte è d’acqua dolce e sfocia segretamente nell’acqua salata – in Sicilia c’è sempre una storia di amanti, c’è sempre una storia di gallerie sottomarine, c’è sempre persino una storia di ponti disastrosi perché pare che i lavori di costruzione del terzo abbiano seriamente danneggiato la fonte. Il terzo ponte di Ortigia non si fece mai: c’è sempre la storia di una megalomania incompiuta, e tutto questo è molto siciliano, molto siciliano.

 

Finalmente, benedetta dal mito, mi presentai in libreria un minuto prima dell’orario concordato. Mi accolse una schiera di sedie vuote. La libraia, l’organizzatrice e la presentatrice si affrettarono a tranquillizzarmi spiegandomi che a Siracusa era normale, sarebbero arrivati tutti con quaranta minuti di ritardo. Apprezzai la gentilezza con cui non mi si voleva far pesare l’insuccesso mentre continuavo a rimuginare, immaginavo il ponte umbertino deserto sotto la pioggia, quel ponte così affollato in ogni altra stagione, e moltiplicavo milioni di presentazioni deserte in tutta la Sicilia, milioni di auto e di scooter che sfrecciavano sopra Cisonopassato ignari delle presentazioni di libri e della letteratura tutta, sprezzanti verso i miti dello Stretto e del patrimonio prezioso delle nostre coste. All’improvviso lo scenario mi era familiare, era così che avevo sempre vissuto da antipontista: con l’incubo che prima o poi un politico neoeletto, uno dei tanti ammalati di epidemia, sarebbe uscito dalla prima pagina di un giornale, dallo schermo di un telefonino, da un salotto in seconda serata e sarebbe venuto fin sulle coste della mia città a piantare la prima pietra della disfatta. In fondo cos’è il ponte se non un altro mito di quella folle lingua di mare, l’ennesima creatura che non esiste e di cui ci ostiniamo a tramandare le gesta, come quelle di Cola, come quelle di Cariddi? Un mostro non meno spaventoso di Scilla, con le sue tre file di denti aguzzi. Siamo cresciuti così, sull’isola senza ponte: per essere certi che l’Esigenza Infrastrutturale non si farà mai abbiamo bisogno di evocarla sempre. Il fantasma del ponte fa parte pure lui dello Stretto, è una delle apparizioni per pochi eletti, come il mare colore del vino o il fenomeno di magia ottica di Fata Morgana. Qualcuno ogni tanto lo scorge, è proprio lì, sembra di toccarlo, cerca di convincere gli amici: ma come, non lo vedete pure voi? Qualcuno annuisce, qualcuno tira dritto come i marinai di Ulisse con la cera nelle orecchie mentre le sirene cantano. Intanto, la paura è passata e la libreria si è riempita. Magari non proprio piena-piena, ma abbastanza perché si tenga l’incontro, le mie ospiti avevano ragione, bisognava spostare le lancette di quaranta minuti, i siciliani si susano tardi, pure io come ho fatto a scordarmelo, sarò mica diventata una continentale. Insomma, a Ortigia qualcuno il viadotto l’ha attraversato davvero, qualcuno era già sull’isola, qualcuno sta sistemando il microfono, in lontananza mi pare di sentire il barrito di un elefante. Va bene, allora stasera parliamo di libri, al ponte sullo Stretto ci pensiamo la prossima volta.

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