Viva la casta

Antonio Pascale

Leggi che semplificano le leggi, norme che rendono più efficiente il sistema, i burocrati che diventano il vero motore dello stato. Perché il riscatto di un paese passa dalla demolizione della ridicola agenda anti casta. Gran diario di un ministeriale non pentito

All’inizio, ammetto, è stata dura. Accettare di essere un ministeriale, dico. Cioè, dài, e chi ci pensava. Nel 1985, dopo la maturità scientifica mi ero iscritto ad Agraria, a Portici. Un bel giorno me ne stavo nella meravigliosa reggia di Portici, in un laboratorio, con un cranio di bovino in mano. Esercitazione di anatomia e fisiologia degli animali domestici e sì, lo so, sembravo co’ ’sto cranio in mano un Amleto d’avanguardia, quando un collega di corso, si chiamava Mario, si avvicina, sguardo di chi sta rotto il cazzo e sigaretta in bocca e mi dice in napoletano: ’amma fa’ ’na cosa? – Che cosa? risposi. – Vogliamo prenderci il diploma di perito agrario, da privatisti? Tanto – mi spiega – gli esami del primo anno sono uguali a quelli della maturità. – E poi che facciamo? domandai, sempre col cranio in mano. – E poi dio pensa, cominciamo a lavorare, l’università è lunga, cinque anni, magari andiamo pure fuori corso.

 

Lavoravo, progettavo stalle e caseifici, gestivo pure due grosse aziende. All'inizio, accettare di essere un ministeriale è stata dura

Così, insieme a Mario mi presi questo secondo diploma e in effetti, avevo vent’anni scarsi, cominciai subito a lavorare. Nella terra maledetta, quella che ora chiamano Terra dei Fuochi, ecco, quella per noi era più semplicemente i “mazzoni”, terreni duri, argillosi, bufale e frutteti, e sì, qualche camorrista casalese in giro per i campi. Così, lavoravo e studiavo, finché al secondo anno di università a luglio mentre raccoglievo piante erbacee per un’esercitazione di botanica sistematica, incontro, sempre nella meravigliosa reggia di Portici, Mario: sigaretta in bocca e sguardo di chi sta rotto il cazzo. Mi dice: ’amma fa’ ’na cosa? – Dimmi… – Vogliamo fa’ ’sto concorso per il ministero dell’Agricoltura? – Guarda non so, gli risposi. Cioè io leggevo Charles Bukowski di notte e lavoravo nei mazzoni dalla mattina presto, progettavo stalle e caseifici, impianti di irrigazione a goccia e pozzi artesiani, redigevano piani colturali e gestivo pure due grosse aziende. Con i soldi guadagnati mi pagavo gli studi, viaggiavo e portavo la fidanzata nei migliori ristoranti di Napoli: insomma, mi sentivo libero, libero professionista. Cioè lo stato, dài. Lo stato, si era nel 1986, era per me pur sempre lo stato borghese, con tutti gli annessi e connessi. Tra l’altro ero iscritto a Democrazia proletaria. La tessera di allora recava in epigrafe una dichiarazione di Guevara: “Sarete rivoluzionari ogni volta che soffrirete per un uomo sfruttato in un lontano angolo della terra”.

 

Voglio dire, a vent’anni si è preda di astratti furori. E in effetti: sapevo elencare in ordine d’importanza crescente tutte le situazioni di disagio del mondo, quindi i miei obiettivi erano belli ma, geograficamente, abbastanza lontani. Lo statuto di Democrazia proletaria si accordava bene con i miei obiettivi. Infatti, in un punto, recitava: Democrazia proletaria accetta sì le regole del Parlamento italiano ma resta fedele a ogni proposito rivoluzionario. Si voleva così esprimere l’insostituibile bisogno di comunismo. Che per adesso era, geograficamente, lontano, e appunto un po’ astratto, ma verso il quale bisognava pur tendere. Quindi, come disse il capo sezione di Dp: noi siamo accidentalmente, per ragioni, diciamo così, contingenti, parte di questo stato, ma in ultima analisi ne siamo anche fuori: lo stato borghese si abbatte e non si cambia. Ecco, appunto, se fossi diventato un ministeriale che facevo, abbattevo me stesso?

 

A vent'anni si è preda di astratti furori. Il disagio del mondo…
I miei obiettivi erano belli,
ma geograficamente lontani

Allora?, mi chiese Mario. Non lo so, risposi. E lui sbuffò: questo concorso è buono, è uscito a luglio, quando so’ tutti in vacanza… facciamo ’sta domanda, tanto l’università è lunga, il concorso può durare anni. Lasciai perdere ma giorni dopo, durante una cena a casa mia, un amico, Raniero, che studiava Legge, si lasciò andare a un’osservazione choc: non sono per niente comunista, io credo, invece, allo stato liberal-socialista! Corrente di pensiero che, all’epoca, mi pare fosse rappresentata da Nicolazzi e dal suo Psdi. Questo non rendeva la discussione facile. Aggiunse: credo ai doveri reciproci tra cittadini e stato. Ci si accapigliò. Raniero insisteva: invece dello stato borghese, partiamo dallo stato comunista che voi tanto anelate, ebbene il sistema di diritto penale comunista ha lo stesso impianto dottrinale di quello nazista, un impianto di stampo determinista. Cioè? gli aveva chiesto un mio amico che non beveva per principio nei bicchieri di plastica perché stanco di inquinare il mondo. Il sano sentimento del popolo tedesco – ormai Raniero era partito – interpretato dal Führer, da una parte, e lo spirito del proletariato dall’altra. Non si agisce punendo l’individuo colpevole di condotta antigiuridica, e quindi soggetto a responsabilità individuale, ma il Tipo d’autore. Cioè? Gli aveva chiesto sempre quel mio amico mentre cercava un bicchiere di vetro per il vino. Nel ’35 – disse Raniero – un gruppo appartenente alla gioventù del Reich bruciò bandiere e stemmi di un famoso gruppo cattolico tedesco. La cui sede fu assalita e distrutta. Ora, il codice penale del Reich conteneva le norme per punire tale abuso; c’erano tutti i crismi per avanzare una richiesta di punibilità per danneggiamento, ma prevalse l’interpretazione del sano sentimento popolare, il gruppo aveva agito in conformità a tale sentimento. Bene, questa stessa situazione la ritroviamo nel codice penale sovietico.

 

Qual è la differenza? Non si parla più di sano sentimento popolare, ma dello spirito del proletariato, ovvero lo spirito di classe. Viene dunque a essere punito il carattere dell’autore e non l’individuo: insomma, compagni, se un proletario ruba, non danneggia il derubato, ma danneggia e disonora la classe d’appartenenza, quindi il sentimento del proletariato.

C’è, dunque, nello stabilire la pena un peso in più. Non sentite nell’aria un eccesso di pathos? Lo stato che incarna questo spirito del proletariato è, a tutti gli effetti, totalitario. Non è lo stato che mi piace.

 

Gli chiesi: che faccio con 'sta domanda per il concorso? E lui: art. 97 e 98 della Costituzione. "I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione". "I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione"

A questo punto il mio amico, bicchiere di vino in mano, smadonnò, poi gli chiese: non ho capito, allora lo stato borghese… E infatti – rispose Raniero – ci stavo arrivando, può accadere in misura contenuta anche nello stato borghese: faccio per dire, se un giudice decide di infliggere una lieve condanna a un rapinatore che ha ucciso un tabaccaio dei quartieri spagnoli, in base alla motivazione dei fattori ambientali, cioè che chi nasce in quelle zone e respira un clima di violenza tende a diventare violento, dunque ha delle attenuanti, questo giudice fa, in sostanza, due cose: dice che i fattori ambientali possono determinare in misura fortissima il carattere di un individuo, al punto che l’individuo è guidato dal destino avverso, non dalle sue responsabilità, e stabilisce, per seconda cosa, che la vita di un uomo ai quartieri spagnoli vale meno della vita di un uomo al Vomero. Intendiamoci, non è questo lo stato liberale che mi piace. Però, in ultima analisi, lo stato liberale è costruito intorno all’individuo, dunque risponde a un individuo rintracciabile e responsabile. Voi ora capite… ero giovane, iscritto a Dp, i furori erano passionali e inutili e progettavo stalle, detestavo lo stato ma non lo conoscevo affatto, il mio collega dell’università continuava a chiedermi: ’sta domanda per il concorso? ’amma fa’? Sì o no?

 

Insomma, ero una contraddizione vivente e quindi in un impeto chiesi – ma dopo, a luci spente – maggiori informazioni a Raniero, e sì a proposito dello stato: che faccio con ’sta domanda per il concorso? E lui mi rispose: art. 97 e 98 della Costituzione. “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”. Bè, cazzo, pensai: non c’è che dire, lo stato borghese quando ci si mette… erano molto belli, mi piacquero.

 

Tre anni dopo, finito il lungo martirio tra prove ed esami eccomi insieme a Mario, a Roma, 1989, ministero Agricoltura, assunto con funzioni ispettive. Sarei stato dunque al servizio della collettività, a questa dovevo rispondere, avrei garantito il buon andamento e l’imparzialità, art. 97 e 98, appunto. Ma all’inizio, ammetto, è stata dura.

 

 

I primi giorni nemmeno avevo una stanza e mi aggiravo con Mario nei corridoi così per tastare il terreno. Un vecchio ministeriale ci consigliò di girare sì nei corridoi, ma sempre con un foglio in mano. Ma che foglio? Un foglio, anche bianco, l’importante è che diate la sensazione di portare un documento da una parte all’altra, di essere occupati. E prendemmo così a girare col foglio in mano. Poi un altro vecchio ministeriale ci consigliò di dare un’occhiata al calendario per cominciare a scegliere le ferie. Non solo quelle estive, ma perlomeno fino a Pasqua del 1990. Cioè? rispondemmo io e Mario all’unisono. E come cioè, voi maturate due giorni e mezzo al mese e siamo a luglio, a parte che Ferragosto quest’anno viene di martedì e quindi già c’è un ponte, ma l’Immacolata viene di venerdì e siccome a Natale per fare tutto il periodo ci vogliono quattro giorni dovete scegliere e già da adesso se preferite prendere ferie per il ponte dell’Immacolata o durante Natale, senza contare i Morti… (che veniva di mercoledì…).

 

Ma soprattutto fu dura essere degni degli articoli 97 e 98 quando dopo una settimana di giri nei corridoi col foglio in mano, il mio capo – occhiali spessi, sigaretta sempre in bocca, capelli bianchi, naso aquilino e sguardo sempre fisso sulla scrivania – finalmente mi chiama a consulto. Ho una circolare, deve andare in firma dal ministro. Tu sei nuovo, quindi fammi il piacere, leggila dimmi cosa e se capisci. Come fui contento di quell’incarico. Presi la matita rossoblù, la stessa con la quale avevo cerchiato i giorni di ferie fino al 2000, e cominciai a leggere. Per farla breve pensai che l’avesse scritta una mente alienata. Incisi, segni grafici, richiami decine di leggi passate, pensieri contorti, insomma tornai dal mio capo e confessai: non c’ho capito niente. E finalmente lui alzò gli occhi dalla scrivania e mi disse: allora è perfetta! Prima lezione: le leggi non devono essere mai chiare, se lo sono noi con la chiarezza diamo potere a chi legge. E invece, il Superiore Ministero deve mantenere, per il bene della collettività, il potere dell’interpretazione finale. Ma – dissi – quelli a cui diamo potere non sono gli italiani e noi non siamo al servizio della collettività? Sì, beato a te, mi rispose. E in effetti. Fui incaricato di stimare i danni prodotti dalle calamità.

 

"… L'importante è che diate
la sensazione di portare un documento da una parte all'altra,
di essere occupati". E prendemmo così a girare col foglio in mano.
Poi un altro vecchio ministeriale
ci consigliò di dare un'occhiata
al calendario per cominciare
a scegliere le ferie. Non solo quelle estive, ma fino a Pasqua

Giusto per incorniciare la situazione, la legge che disciplina il settore chiarisce bene, e in più punti, che i contributi possono essere versati dallo stato ai danneggiati, solo se questi ultimi hanno tenuto le opere in perfetta manutenzione ordinaria. Per esempio, se una pioggia danneggia una strada, si deve verificare che prima dell’evento l’opera fosse stata tenuta in perfetta manutenzione: asfaltata, senza buche, fessurazioni, con quelle belle canalette di scolo per le acque. Il legislatore teneva a sottolineare: se la strada è in buone condizioni, una pioggia semplice o anche un acquazzone più violento del solito, non basta a danneggiarla. Se si danneggia vuol dire che non si è operata una buona salvaguardia del territorio. Si è responsabili di questo, certo non colpevoli, non si paga una multa, ma i contributi non potranno essere erogati. Se la strada, invece, è in perfetta manutenzione e si danneggia, allora vuol dire l’evento è stato davvero eccezionale. Dunque è giusto ripagare coloro che hanno subito danni dal destino. Ora, giravo per l’Italia e mi accorgevo che nessuno praticava quest’elementare opera di manutenzione: gli agricoltori se ne guardavano bene, già avevano tanto a cui pensare, e i comuni, le comunità montane, gli enti delegati, a cui erano affidate le manutenzioni delle strade interpoderali oggetto di indagini, rispondevano sempre in due modi: il primo: dottò, magari! i soldi per la manutenzione, noi dove li prendiamo? Il secondo, più complesso, verteva sul tema: che significa perfetta manutenzione? Ci si poteva cavillare all’infinito. Qual è il limite di tolleranza? quante buche può avere una strada per essere considerata non ben manutenuta? Se presenta solo qualche piccola ammaccatura, e il fondo stradale è, tutto sommato, percorribile, è o non è in buona manutenzione?

 

Alla fine qual era dunque il modo per uscirne? Chi richiedeva i contributi sosteneva che era caduta tanta di quella pioggia che nemmeno i vecchi si ricordavano una cosa simile. Insomma, c’era la sensazione che esagerassero con il danno, l’evento era stato davvero eccezionale, di fronte a questo non c’era manutenzione che avrebbe tenuto: dottò, è caduta tanta di quella pioggia, voi non ne potete avere un’idea, mai a memoria d’uomo si ricordava una pioggia così! Mi chiedevo se l’esagerazione retorica sugli effetti della pioggia, argomentata con pagine e pagine di parole, schemi che rappresentavano lo spostamento anomalo dell’anticiclone delle Azzorre, esposta, insomma, così bene che era difficile confutare, (questa retorica) non fosse, in fondo, solo un modo per aggirare la questione delle responsabilità: alla fine, il male (atmosferico) era sempre fuori di noi.

 

La collettività a cui dovevo dare conto non era unita, perché non si sentiva responsabile dei propri atti, eppure Raniero mi aveva spiegato che lo stato liberale è costruito attorno all’individuo, rintracciabile e responsabile. E invece il sindaco di un comune mandava via fax la richiesta d’intervento, ma non perché ce ne fosse la necessità, ma perché il sindaco del comune accanto aveva fatto lo stesso. E così via, in un processo di domino.

 

Erano troppi a dire: noi siamo Stato.I comuni, gli enti, le regioni,
si ritenevano Stato, cioè, figli sfortunati dello Stato solo quando c'era da riscuotere. Quando dovevano farsi Stato e riconoscere
le proprie responsabilità allora no. Erano dentro e fuori

Un giorno vado insieme a Mario a una riunione. C’era da decidere una quota di stanziamento d’urgenza da dare a una regione per una calamità. La stanza era piena di gente, sistemata in tre file: la prima al tavolo, la seconda a poca distanza dalla prima, attorno al tavolo, e l’ultima stava seduta molto distante dal tavolo, praticamente attaccata alla parete. Un piccolo stato. Dopo venti minuti, Mario stava davvero rotto il cazzo e mi disse in un orecchio: l’importanza delle file è inversamente proporzionale alla distanza dal tavolo, le ultime contavano di più. Quelli seduti lontano erano un gruppo eterogeneo, statisticamente non rilevabile. Ognuno diceva qualcosa di diverso e lo diceva con voce abbastanza alta, a tratti arrogante e violenta. C’era uno che a ogni proposta rispondeva: la montagna ha partorito un topolino. Quelli della fila di mezzo concentravano gli argomenti in due o tre dichiarazioni e quelli intorno al tavolo, vestiti bene, completo fresco lana blu, esponevano le richieste con linguaggio sopraffino, molto retorico e convincente. Pensavo: democrazia significa dare a tutti libertà di espressione, ma forse la democrazia esiste laddove si garantisce a ogni individuo la possibilità di incidere sulla propria comunità d’appartenenza. Bene, ma qui, in questa stanza, le comunità erano davvero troppe, e ogni singolo, a torto o a ragione, voleva incidere. Il paradosso era che (tutti) dichiaravano di operare a nome della collettività nazionale, anche se chi parlava lo faceva chiaramente per conto proprio, o al massimo per conto del suo vicino di casa. Dunque, lo stato sembrava scisso in un’infinità di elementi, e la contrattazione era estenuante. In pratica, non si capiva quante fossero le montagne e quanti i topolini.

 

Poi arrivò il mio capo, quelle delle circolari poco chiare e della Superiore Interpretazione. Ci chiese: da quanto tempo state qui? – Ormai sono due ore. – Ok, rispose: fai finta di andare a prendere un documento e spegni l’aria condizionata! – Cioè? dissi. E spegni ’sta aria condizionata. Dieci minuti dopo le richieste divennero meno insistenti e una parte di quelli della terza fila cominciarono a sudare di brutto. Però resistevano. Quando ecco che entra in riunione il direttore generale rappresentante del ministero. Salutò e si sedette e disse due cose, e mi chiese: da quanto tempo siete qua? – Ormai quasi due ore. – Spegni l’aria condizionata, mi disse. – In verità, direttore – dissi – l’ho appena fatto. Allora se l’assenza dell’aria condizionata non basta, si gioca al rialzo. Il direttore generale chiese: stringendo stringendo, quanto volete? Volevano qualcosa come 150 miliardi delle vecchie lire. E il direttore generale disse: fino a 200. Restarono tutti impressionati dal ministero, si sentirono capiti e serviti e accettarono subito. E fecero male, perché non c’era la copertura finanziaria del Tesoro, dunque questi soldi, materialmente non esistevano, erano astratti, come i furori. Ma come disse il direttore generale: per quanto di nostra competenza, la questione è risolta a norma di legge, adesso se la vanno a piangere al Tesoro.

 

Io e Mario eravamo impressionati. Dalla Superiore Interpretazione. Dalla spinta gentile, diciamo così. Quasi una tecnica difensiva. Erano troppi a dire: noi siamo Stato. Ognuno riteneva che la propria parte fosse pervasa da un sano sentimento popolare e particolare. Dunque se limitavi quella parte offendevi un sentimento: come negli stati totalitari. Insomma, i comuni, gli enti, le regioni, si ritenevano Stato, cioè, figli sfortunati dello Stato solo quando c’era da riscuotere. Quando dovevano farsi Stato e riconoscere le proprie responsabilità allora no. Erano dentro e fuori. Mi tornavano in mente le parole del capo sezione di Democrazia proletaria: noi siamo accidentalmente, per ragioni contingenti, parte di questo stato, ma, in un’ultima analisi, ne siamo fuori. Senza saperlo, in Italia, dovevamo essere tutti di Dp. E sì, ammetto, in principio è stata dura.

 

Poi è arrivata una novità: la legge 241. Tuttavia me ne sono accorto nel 1994. Ero sceso a Caserta per le feste e avevo incontro Raniero. Ormai era un magistrato in piena attività. Gli dissi: a proposito dei tuoi consigli, gli art. 97 e 98, la trasparenza, il buon andamento, la chiarezza, ma quando mai, qua va tutto a scatafascio. Gli raccontai delle circolari poco chiare e della Superiore Interpretazione, delle piccole parti che si sentivano attraversate da uno speciale sentimento popolare, delle spinte gentili che bisogna dare affinché le cose andassero nella direzione stabilita ecc. Mi rispose: però devi smetterla d’essere patologico. Perché, invece, non pensi alla fisiologia? Basta con le fissazioni su come non funziona, bisogna pensare a come funziona, se non sappiamo come funziona, poi ci stupiamo del perché non funziona. Cioè, molto spesso è la nostra ignoranza sul funzionamento a determinare le anomalie del sistema. Tu dici l’eccesso d’interpretazione, il linguaggio non chiaro… va bene, ma sai da dove nascono queste cose? – Da un punto di vista giuridico, chiesi? – Sì, dal quel punto di vista. – E no – risposi – non lo so. C’è un articolo della Costituzione che dice: la legge non prevede ignoranza, no? te lo ricordi? E sì me lo ricordavo, anzi una volta vidi pure una scritta, in un vicolo di Napoli, la legge non permette ignorantità. Vabbè…

 

Adesso non si parla più
di Amministrazione e amministrato, ma di Pubblica amministrazione
e cittadino. La legge sottolinea
la vicinanza tra le parti. Solo così, esponendo entrambi i propri doveri, Pubblica amministrazione e cittadino si vincolano a vicenda e si rispettano

“Il fondamento filosofico di questo articolo – mi spiegò Raniero – è d’origine greca: siccome le leggi venivano fatte nell’agorà, con tutti i cittadini presenti, allora non potevi non conoscerle. La comunità tutta partecipava alla formulazione delle norme, verso le quali vigeva un rapporto di responsabilità diretta. Tra legge, interpretazione e applicazione c’era sempre accordo. Ora, allo stato italiano, per tutta quella serie di questioni storiche, antropologiche ecc., è convenuto sfruttare questo principio. Ogni volta, infatti, si è arrogato il diritto di possedere il sapere necessario, dunque la giusta interpretazione della legge. Da questo l’ambiguità, la difficoltà nell’attuare un peso e una misura ecc. Lo stato, dal suo, era arroccato, non voleva far conoscere, e comunque andava, la colpa era sempre del cittadino che non conosceva il funzionamento. Mo’ – mi disse, con molta calma – questo principio è stato riformulato dalla sentenza 368/88 della Corte costituzionale. Guarda, è molto bella e ben scritta, te la devi leggere: dice che l’ignoranza è prevista, visto cioè che le leggi non nascono più nell’agorà greca, non vedono più la partecipazione di tutti i cittadini, lo stato ha il dovere di far conoscere le sue leggi e le modalità di attuazione. E come adempie a questo dovere? Con la chiarezza e la corretta esposizione. La legge 241/90 deve molto a questa sentenza”. La 241? chiesi, cioè? “Oh! – mi disse Raniero – La legge sulla trasparenza della Pubblica amministrazione. Ma da quanto tempo lavori? Dal 1989? Siamo nel 1994. Porca miseria, lo vedi che sei patologico, la 241 è del ’90. Ma che hai fatto in questi dieci anni? Adesso non si parla più di Amministrazione e amministrato, ma di Pubblica amministrazione e cittadino. La legge sottolinea la vicinanza tra le parti, e non l’arbitrio di una delle due sull’altra. Sai come dice il testo? La forma chiara e semplice protegge entrambe le parti dall’arroganza dell’arbitrio. Così entrambe le parti sono legate, indissolubilmente, a doveri reciprochi. Non diritti, ma doveri. Solo così, esponendo entrambi i propri doveri, Pubblica amministrazione e cittadino si vincolano a vicenda e si rispettano”.

Ma è bellissima – dissi – ma chi l’ha fatta? – Nel ’90, c’era Gava ministro dell’Interno. – Gava? come Gava? ma Gava, Gava, quello là? Sicuro? Mi sa che c’era Scot… boh.

 

Ps. Mario non fuma più, si è trasferito a Londra. L’ho incontrato un giorno. M’ha parlato degli one-shot. In Inghilterra ci sono provvedimenti chiamati one-shot, un provvedimento che disciplina più materie: mica per fare il più cretino dei provvedimenti si devono sentire tutte le parti, gli inglesi si sentono uno stato, la parola più ricorrente è responsabilità. Altro che aria condizionata. Cioè, c’è un format televisivo – mi ha detto – che è cominciato negli anni Cinquanta. Si seguono dei ragazzi che stavano a scuola insieme, dagli anni Cinquanta fino a oggi. Capito? Lungimiranza. Mica cambia un direttore e cambia il programma, loro sono la Bbc. Così mi ha detto, e comunque anche se non fuma più ha sempre lo sguardo di chi sta rotto il cazzo.

 

Il mio amico Raniero, invece, è direttore generale del ministero di Grazia e Giustizia, l’ho incontrato a un convegno. Ci siamo messi a parlare e tra una cosa e l’altra m’ha detto: qua teniamo un tale carico di roba accumulata che la possiamo sbrigare solo fra vent’anni, cioè quello che succede oggi lo possiamo capire fra vent’anni. Ti rendi conto? Gli ho detto: ma che sei diventato patologico?

 

Ancora: il 7 agosto del 2015 la legge Madia ha introdotto una serie di importanti norme di riforma. Sulla base delle deleghe legislative in essa contenute sono stati emanati una ventina di decreti legislativi. Si tratta del più importante complesso legislativo elaborato negli ultimi anni. Tuttavia è passato sottotraccia, insomma, in pochi lo conoscono (ma del resto io ho saputo dell’esistenza della 241 nel 1994…) eppure molti interventi legislativi hanno prodotto o stanno producendo importanti effetti in termini di efficienza, semplificazioni, ecc. Tanto è vero che i primi a protestare sono quegli stessi portatori di interessi che affollavano quella stanza riunioni e ai quali si rispondeva con la circolare interpretativa o con l’aria condizionata.

 

E per finire, ammetto che all’inizio è stata dura. Quando entrai ormai 28 anni fa al ministero ricordo gli oggetti della mia stanza: scrivania rettangolare, con due colonne di cassetti ai lati, ogni colonna conteneva quattro cassetti. Univa il tutto un cassettone centrale, una sorta d’architrave. La scrivania era matricolata 399/50. I miei piedi toccavano una pedana di legno, che, davvero, dire “molto consumata” significava pronunciare un eufemismo. La pedana aveva perso ogni traccia di smalto, era sporca, mostrava screpolature, pozzetti, e c’erano parecchie schegge visibili, per questo risultava impossibile toccarla con la mano, e devo dire, faceva senso anche spostarla con il piede, soprattutto perché strideva sul pavimento. In una momentanea allucinazione, per via del caldo, al posto della pedana, pensai ci fosse un cane calpestato e bastonato, quelli che stanno accucciati in un angolo. Ora invece e da tempo tutti gli antichi mobili della mia stanza, con le matricole, sono stati sostituiti. Mica solo i miei, in tutto il ministero. Le sedie hanno le rotelle e il pistoncino idraulico. Basta premere la leva e si alzano e si abbassano: all’inizio, la novità è stata molto apprezzata. Soprattutto per gli scherzi. Io stesso mi avvicino a un collega tutto preso a scrivere e gli abbasso la leva, così la sedia si abbassa. I mobili non sono però di legno buono, sono fatti con il cerro. E tuttavia, per chi ama le metafore, il mio professore di botanica sistematica così definiva le caratteristiche del cerro: il cerro è di rapida crescita, ma il suo legname non è molto pregiato e non resiste al marciume. Malgrado i suoi non grandi pregi produttivi, le cerrete meritano senz’altro di essere gestite con oculatezza, dato il loro mirabile adattamento e la protezione che offrono contro l’erosione del terreno e per la manutenzione dell’ambiente. Dovrebbe essere una metafora. Di quelle che responsabilizzano i singoli, la comunità, cioè lo stato. O no?

 

*Antonio Pascale è nato a Napoli nel 1966, ha vissuto a Casera poi a Roma, dove attualmente lavora. Ha pubblicato molti libri (romanzi, saggi, reportage). L'ultimo, “Le aggravanti sentimentali” (Einaudi). È autore di “Domenica In”.