La morte del console Lucio Emilio Paolo durante la battaglia di Canne (Yale Univeristy Art Gallery Scan)

I dèmoni di Canne

Alessandro Giuli
Che cosa ha dovuto imparare Roma dalla sua più eclatante sconfitta contro Annibale. Un libro sul volto oscuro di un conflitto ancestrale.

Cartagine è morta nelle fiamme salmastre del suo stesso rito negromantico, avvolta nelle spire della maledizione lanciata da Didone contro il pio Enea: divorata dall’odio delle Furie ultrici scatenate dal suicidio della regina svirilizzante, le esecutrici di un testamento genocida, preda della magia nera: “Sorga dalle mie ossa un vendicatore che insegua col ferro e col fuoco i coloni di Dardano, ora, in futuro, sempre finché ve ne siano le forze” (Eneide, IV, 625-627). Tra il rogo epico di Elissa/Didone fissato nell’archetipo vergiliano e la disaratura salata di Cartagine (146 prima dell’èra attuale), il vendicatore non ha mancato di manifestarsi; anzi, se è per questo sembra sopravvissuto alla stessa capitale punica e serpeggia fino ai giorni nostri. Di volta in volta ha assunto ossa e volti e simboli diversi riconducibili allo stesso modello: il Disgregatore, nemico ancestrale, indomito e scaltro, della Aeternitas Romae. La più nota e sanguinaria di queste incarnazioni si chiama Annibale Barcide, il duce punico che ha trascinato l’Urbe sul limitare di un abisso senza ritorno, ma ha fallito, perché l’incompiutezza è l’ultimo nome di questo dèmone del deserto che ha visitato in sogno il figlio di Amilcare Barca.

 

Quando il sogno raggiunge Annibale, figlio di una nobiltà recente ma doviziosa, influente e ricca, nazionalistica e spregiudicata, il futuro vincitore di Canne ha già da tempo giurato “numquam amicum fore populi Romani”. Lo ha fatto a nove anni, al cospetto del padre e sotto le insegne del suo dio gentilizio Melqart, l’anti-Ercole cartaginese, protagonista di un invasamento temerario e tragicamente lucido. Il merito di aver colto un destino nel nome dei Barca (il fulmine del medioriente), così come nel respiro tenebroso delle notti di Annibale, è di Giovanni Brizzi, insigne docente di Storia romana all’Università di Bologna, forse il maggior studioso contemporaneo dell’antico mondo punico e semita (monumentale il suo lavoro intitolato “70 d.C. la conquista di Gerusalemme”, Laterza, 2015), il quale oggi ci offre una lettura profonda, e non materialistica, della seconda guerra punica che costò a Roma circa duecentomila anime (“Canne. La sconfitta che fece vincere Roma”, il Mulino). Ma quale sogno, quale dèmone fondo s’è incaricato di possedere il cuore ambizioso di Annibale? Scrive Brizzi: “Nella versione conservata da Cicerone (e da alcune altre fonti) Annibale, addormentatosi, sogna di essere trasportato al cospetto del padre degli dèi – forse Ba’al Hammon… – che lo affida a un giovinetto bellissimo perché lo guidi oltre le Alpi. Secondo l’interpretazione prevalente il divino hegemòn sarebbe Melqart in persona, che quella via ha già percorso prima di lui. Il dio lo ammonisce dicendogli di non guardarsi mai dietro le spalle; ma di seguirlo senza volgere la testa… Annibale, però si volta; e vede procedere sulle sue orme un essere mostruoso (serpente? dragone? idra? belva anguicrinita?) che distrugge ogni cosa al suo passaggio.

 

Al Barcide che, sgomento, chiede cosa mai sia quella creatura, il giovinetto risponde ‘vastitatem esse Italiae’, si tratta della devastazione dell’Italia che seguirà il suo ingresso nella penisola”. Il Disgregatore ha preso forma e scelto il suo cammino: l’heraklèia odòs, la via seguita da Ercole muovendo da Cadice, vincitore del tricorpore Gerione e rapitore dei suoi armenti, fino al Capo Lacinio, passando per le Alpi e gli Appennini. Annibale come Ercole? Soltanto a un dio o a un eroe solare è lecito valicare in armi la catena celeste delle Alpi e la barriera magica degli Appennini. Il Barcide sarà costretto da folgori e tempeste a scantonare dalla via di Ercole: piuttosto Annibale è il doppio oscuro, ellenizzante semmai, il Melqart appunto, dell’Ercole italico intorno al quale erano fiorite da tempo immemore le rocciose comunità dei popoli italici.

 

Nondimeno, il “Benedetto da Ba’al” osa l’inosabile e lo fa con iniziale e durevole successo. Indiscutibile. Allevato nell’odio antiromano più acceso (la prima guerra punica era un fatto recente che risaliva agli anni Quaranta del III secolo), Annibale è il Monomachos descritto dalle fonti come colui che accetta di rompere il patto di pace con Roma invadendo la sua enclave ispanica di Sagunto, sapendo che nella sua prossima, lunga marcia lungo l’Italia “dovrà traversare zone selvagge e difficili, popolate da genti bellicose”. Ma per lui la soluzione sarà semplice: “Basterà addestrare i soldati a nutrirsi di carne umana, cibandosi dei corpi dei caduti”. Non solo: all’occorrenza, Annibale farà di se stesso un pontifex ater, un pontefice nero ovvero colui che viola la natura numinosa delle acque e la sacertà (il sacer è l’intoccabile!) dei morti “facendo ponti di cadaveri” per guadare i fiumi. La sua biografia è l’inversione completa del simbolismo romano, così come la sua tattica di guerra è fondata sulla perfidia sconosciuta alle genti italiche, le sue strategie politiche sono dirette al risveglio di tenebrose latenze asiatico-mediterranee all’interno delle città alleate di Roma, se non neutrali.

 

L’Apulia diventerà il palcoscenico della grande mattanza (45 mila fanti, 2.700 cavalieri romani) che verrà poi vendicata a Zama da Scipione l’Africano, mentre lungo la dorsale appenninica, e poi la Campania e il Sannio, la ferace terra italica subirà sfregi e scie di devastazione etnica ancora oggi avvertibili in fessure, dirupi, balzi tellurici e detriti antropologici. Roma vincerà, naturalmente, ma pagando un prezzo altissimo: tradita da Elleni (manco a dirlo…) e Sanniti (tranne i Pentri), ma sostenuta perfino dagli Etruschi, dagli Umbri, oltreché dagli indomiti e affidabili Latini. Un immane sforzo cardiaco, un colossale tributo di sangue versato dalla Saturnia Tellus contro mercenari Galli, cavalieri Numidi, opliti Iberici, Liguri celtizzati, elefanti e belve semiumane che hanno disgustato perfino i Celti Boi, alleati dell’aristocrazia punica ma presto costretti a subirne la famelica orda raccolta e scagliata con genio bellico di rara grandezza dal Barcide Annibale, non per caso allievo dello spartano Sosilo.

 

Il dato storico è arcinoto, materia di letteratura scientifica e divulgativa, arte cinematografica e musicale, fumettistica perfino. Il merito di Brizzi è di aver rimestato nel pozzo nero con il filtro del conflitto archetipico, se non di una teomachia provocata, per una volta, quasi a dispetto degli interessi mercantilistici cartaginesi. L’oligarchia punica si mostrava contraria a sfidare nuovamente Roma e, anche a guerra aperta, ha scoraggiato titanismi. Non per virtù ma per convenienza, ricorda Brizzi: “A Cartagine la politica è abitualmente in posizione ancillare rispetto all’economia. Una guerra, quindi, si fa fintanto che conviene… Questo approccio dei Cartaginesi ricorda forse un analogo atteggiamento assunto talvolta da una potenza odierna, prevalentemente mercantile a sua volta, gli Stati Uniti”. Ma i Barcidi hanno dalla loro parte i soldi e il popolo, e sopra tutto il Disgregatore furioso nato dalle ceneri fumanti della regina Didone.

 


Annibale, dicevamo, varca le Alpi in inverno, ingannando il console Publio Cornelio Scipione: lo attacca alle spalle sul fiume Ticino e lo ferisce in modo decisivo (a salvarlo è suo figlio diciassettenne, il futuro Africano); poi è la volta del fiume Trebbia, dove il capo cartaginese prima provoca e poi annienta le forze dell’altro console, Tito Sempronio Longo, colpevole d’aver offerto il fianco al nemico facendo guadare alle sue stanche legioni un fiume gelido e in piena. E’ il 21 dicembre, il Sole tocca il punto più basso dell’eclittica, un solstizio gravido di presentimenti funesti. Roma fatica a comprendere le ragioni e l’entità di due sconfitte comunque rimediabili. Annibale paga un prezzo irrisorio in termini di vite umane (quasi tutti Galli indisciplinati usati come carne da macello), ottiene inoltre l’immediata defezione antiromana di numerose tribù celtiche pacificate con l’Urbe dopo l’umiliazione subita pochi anni prima a Talamone. I numi delle Alpi, le cui rocce sono state letteralmente assalite a colpi di maglio, fuoco e aceto africani (così Tito Livio), hanno invece risposto con precisa inesorabilità: tra fulmini e tormente, il Barcide ha perduto 20 mila uomini per invadere l’Italia, prima ancora d’ingaggiare battaglia.

 

Ma adesso Annibale punta a valicare gli Appennini e comincia a fare paura. L’Urbe divide le proprie forze tra Rimini (console Gneo Servilio Gemino) e Arezzo (console Gaio Flaminio Nepote, homo novus ardito ma sprezzante fino all’empietà), il Barcide sbuca sul medio corso dell’Arno. La catena magica è valicata e, come suggerisce Brizzi, “non è solo un ostacolo naturale ma anche un’importante barriera ideale e sacrale. Si tratta del confine tra il mondo celtico e l’Italia vera e propria, di una sorta di simbolico antemurale rispetto alla linea del pomoerium di Roma, consacrato a sua volta e reso magicamente impenetrabile da antichissimi rituali religiosi”. Non a caso, ancora una volta, di lì a poco Annibale pagherà il sacrilegio con il malanno e la perdita dell’occhio destro. Nondimeno, otterrà una bruciante vittoria sulla riva nordorientale del Trasimeno, grazie all’astuzia, alla frode, al nascondimento e alla rara capacità di provocar battaglia dopo aver teso trappole micidiali. Il superbo Flaminio ci mette del suo, cade nell’imboscata nebbiosa, allunga le file dei legionari, si fa stritolare tra una strettoia e la riva del lago. Muore combattendo in modo impavido, Flaminio, ma il celta Ducario che lo atterra non gli usa gentilezza: il capo reciso, il corpo irriconoscibile al quale Annibale avrebbe voluto dare buona sepoltura. E’ il Solstizio d’estate. Roma perde 10 mila fanti e 4 mila cavalieri, e più ancora sta perdendo la sicurezza nei suoi mezzi e nel sostegno degli dèi, i cui segni certi e foschi sono stati disattesi: il dèmone cartaginese, il Disgregatore annibalico, deve morire disgregandosi a sua volta, non va affrontato in campo aperto, meno che mai – ammoniscono i Carmina Marciana – si può manus conserere nel Campus Diomedis, nella pianura dell’Apulia in cui riparò il furente acheo che – teste Omero – si era spinto a ferire Afrodite e a minacciare Apollo Troiano.

 

Monito inascoltato, come sappiamo: Annibale non punta verso Roma ma sceglie l’Apulia come terra d’elezione in cui lasciare le sue impronte incendiarie, fra saccheggi e deportazioni, desideroso di veder cedere la diga invisibile eretta dai popoli italici federati con Roma (uccide i prigionieri romani e libera i socii catturati, illudendosi di demolire così il nerbo unitario dell’Italia romana). L’Urbe si affida, ma solo per sei mesi, a Quinto Fabio Massimo detto il Temporeggiatore (Cunctator). La scelta è saggia, i Fabii discendono dall’Ercole italico e Quinto, Princeps Senatus, mostra d’aver realizzato in sé la condizione del vir che ha trasformato la clava della forza bruta nella clavis “per avviarsi all’impresa / osar le leggendarie fatiche / O duratura, ermetica orma!”. Il dittatore Fabio indice un ver sacrum per risacralizzare i magici tratturi appenninici calcati dall’orda nemica; vota un tempio a Venus Erycina per stornare, neutralizzandola sul colle siciliano, l’immonda carnalità dell’invasore; pone la guerra romana sotto la tutela di Mens, la pre-veggente luce di Minerva Palladia in armi. I risultati arrivano: preda di una “guerriglia magica”, Annibale comincia a logorarsi e quasi smarrisce l’illusione di misurarsi di nuovo con legioni cieche o impaurite. Ma poi l’invidia e la maldicenza prevalgono sulla Bona Mens, altri consoli sopraggiungono, si decide di dare battaglia a Canne. E’ il 2 agosto del 216 a.e.v. e Annibale ottiene la sua gloria schierando i soldati in forma di crescente lunare convesso, salvo poi invertire la disposizione in una micidiale conca che circonda e soffoca.

 

A dire di Brizzi, è questa l’ultima vittoria della perfidia contro Fides, la dea che nella stretta delle mani destre sigilla l’imposizione di combattere faccia a faccia, senza stratagemmi, inganni, imboscate. Annibale ne è lo spregiatore più eclatante, Roma la sua vittima temporanea. Ma non è certo somigliando al perfido Disgregatore che Quinto Fabio Massimo, impugnata nuovamente l’insegna fulgurale del consolato (209 a.e.v.), riesce a inseguire e smembrare pezzo a pezzo il Disgregatore. Quinto Fabio non fa che raccogliere i frutti dei semi piantati durante la precedente sua dittatura, trasformando l’esercito invasore in un corpo decomposto da divisioni e irresolutezze. Gli ozi di Capua? La storiografia li ridimensiona, Brizzi si limita: “Quanto alla ‘Prima Italia’, delle sue comunità tradirà solamente Capua, convinta dopo Canne che Roma sia già sconfitta e animata dalla luciferina ambizione di sostituirsi a lei”; chi visiti il Meridione d’Italia troverà una Puglia non ancora guarita dall’infezione annibalica, chi sappia rammemorare quella che fu l’ubertosa, felix Campania, riscontrerà oggi nei suoi sobborghi sfigurati tutti i segni dell’immolazione. L’Italia romana ha ricacciato in mare il dèmone anguicrinito, ma non le sue uova funeste che si schiudono malgrado la vittoria di Scipione Africano a Zama e la successiva salificazione cartaginese da parte dell’Emiliano. E’ sempre alla clavis erculea di Fabio Massimo che occorre volgersi, “monito dell’Inesprimibile” che “solo il cuore impavido ricorda”.

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