Bakunin cinquantenne, invecchiato nelle disavventure e nella trascuratezza di sé, nel ritratto di Nadar del 1862. “Zoé, la principessa che incantò Bakunin” è il titolo del libro di Lorenza Foschini

Il nobile radicale

Giuseppe Marcenaro
Eccessivo in tutto, squattrinato fino alla miseria, Bakunin voleva buttare all’aria il mondo. Anche tra le braccia di una principessa. Un libro rievoca l’incontro con la Obolenskaja, russa come lui, ricchissima e generosissima. Si trasferirono a Ischia.

Da Napoli scrive a Marx: “Non si può credere come si sia lenti e indecisi in questo paese. La mancanza di denaro, questa prima e fondamentale malattia di tutte le organizzazioni democratiche in Europa, ostacola ogni attività. E per di più la maggioranza in Italia, demoralizzata dal fisco e dagli errori della scuola democratica, centralista e unitaria, è diventata scettica e indifferente”. La lettera è vergata nel 1865 in un piccolo alloggio al secondo piano di palazzo Manconi. E’ una delle centinaia che Michail Aleksandrovicˇ Bakunin invia ogni giorno ad amici e camarades sparsi per l’universo mondo.

 

Quella partenopea tranche de vie dell’anarchico, con una messe di documenti e trouvailles inedite da capogiro, viene evocata in un recente intrigantissimo libro di Lorenza Foschini, Zoé, la principessa che incantò Bakunin (Mondadori, 190 pp., 20 euro). Bakunin era arrivato nell’appena estinto Regno delle Due Sicilie in caccia di denari. Ciò che fece per tutta la vita. Si era abituato a vivere in miseria. Campava di cortesi disponibilità, di “prestiti”, che nella sua nobiltà non avrebbe mai ritenuto dei classici “stocchi”. Un colpo e via. Comunque aveva piantato debiti in mezza Europa. Era arrivato a Sorrento sulle tracce del fratello Paolo che vi soggiornava, secondo l’uso della nobiltà russa del tempo, nella speranza di lucrare il solito aiuto. Michail Bakunin per tutta la vita, rincorrendo il sogno della ricchezza, che avrebbe comunque sperperato nell’illusione di utopiche cause, vagheggiò la parte di eredità della tenuta Prjamuchino nei pressi di Tver’, una città della Russia europea, dov’era nato cinquant’anni prima. Confidava per l’ennesima volta nella comprensione e nella generosità del fratello. Si sentì rispondere che la sua spettanza del lascito paterno l’aveva già consumata. Almeno dieci volte.

 

A Napoli, in quel golfo di luci e turgide bellezze, la fortuna comunque gli arrise. Incontrò la principessa russa Zoé Obolenskaja, ricchissima e generosissima. Infoiata d’anarchismo. Ed è questa la storia raccontata da Lorenza Foschini con commoventi voli della memoria che, in trama, coniugano la biografia della principessa con quella dell’inquieto conterraneo, perennemente tallonato dalle polizie d’ogni stato. Si riconobbero nel profumo del tè esalato dal samovar. Fatale per l’amicizia loro la frase che lui pronunciò, presentandosi: “Depuis que j’ai consciense de moi-même, je suis révolutionnaire”. Si trasferirono a Ischia, con un corteggio di congiunti, parenti più o meno lontani, aficionados e domestici Grazie al sostegno della principessa, si è rimesso in moto in Bakunin l’inesauribile generatore di illusioni che lo anima. Percepisce come i tempi siano diventati maturi per avviare il progetto di cui aveva parlato con Marx… aprire una breccia tra i mazziniani e stabilire contatti con il variegato mondo sotterraneo dei reduci garibaldini che la volitiva Zoé aveva già attirato nella villa dell’isola d’Ischia dove la “strana coppia” si era stabilita.

 

Bakunin veniva descritto come un facondo parlatore: “…Vidi in un salotto dieci o dodici persone sospese alla parola animata di un grigio personaggio. Una figura tra quella di Gambrinus, il mitico patron della birra, e quella di Falstaff. Una specie di orco gigantesco… Aveva piccoli occhi di scoiattolo, ma essi guardavano in modo penetrante. La parola gli spumeggiava infuocata sulle labbra, ora soave, ora tonante, facilmente concitata ed imperiosa…”. Superbo tiratardi, era un di quei tali che costringono gli interlocutori, cascanti di sonno, ad ascoltarli. Era un animale notturno: desto fino alle tre o alle quattro. Per poi dormire fino alle undici del mattino. Si diceva che dalle undici alle tre del pomeriggio lavorasse: scriveva lettere chilometriche piene di proteste e recrimini. Poi si metteva a tavola. Dopo il pasto si concedeva un’altra ora di sonno e a meno non uscisse, per una passeggiata, riprendeva a vergar missive fino all’ora d’andare a letto, riservandosi naturalmente le ore della conversazione serale. Qualche suo contemporaneo lo ha evocato tale a un infaticabile raccontatore di storielle, ricordi di gioventù, cose dette o sentite dire. Aveva tutto un repertorio di aneddoti, di proverbi che gli piaceva ripetere. Era venerato e ricercato. A modo suo un uomo di successo. Fumava di continuo sigarette… E a proposito dell’eterna sigaretta che gli pendeva dalle labbra, un giorno, in Italia, una signora gli aveva chiesto se nel caso fosse scoppiata la rivoluzione e fosse mancato il tabacco, come avrebbe fatto a privarsene. E lui: “Ebbene, signora, fumerei la rivoluzione”.

 

Certo, aveva l’aspirazione a buttare all’aria il mondo perché per lui non c’era niente che andasse bene. Aveva inossidabili principi che si configuravano in un personalissimo teorema, una ideale scala della felicità umana: al primo posto, gioia suprema morire combattendo per la libertà; secondo, l’amore e l’amicizia; terzo, la scienza e l’arte; quarto, fumare; quinto, bere; sesto, mangiare; settimo, dormire. In lui tutto era colossale. La sua mole, intanto. Recava se stesso con un’aria attenta e distratta. Superiore. Non gli interessava gran che delle doti intellettuali di un uomo. Era lui che doveva essere ascoltato. Un predicatore che si esibiva magari disteso sul divano del salotto di un suo ospite. Impenitente girovago, voleva incontrare tutti. Si sarebbe potuto trovare ovunque. Infatti… quella sera c’era anche lui. Con il suo corpo monumentale, accasciato su un canapé di velluto cremisi. Era la sera in cui Nadar aveva istigato Offenbach a eseguire al pianoforte la Marsigliese. Dalle finestre spalancate era piovuta su boulevard des Capucines una tempesta di note di prodigioso virtuosismo. Un improvviso. La parafrasi della Marsigliese “mascherata” di suoni fantasmagorici e variati, tali da impedire alla polizia imperiale in giro per le strade di Parigi di capire cosa si suonasse.

 

Tra gli esaltati di sé che applaudirono il sofisticato artistico calembour, c’era anche lui, Michail Aleksandrovicˇ Bakunin, approdato da quelle parti, alla ricerca di una possibile sosta tra gente di cui si potesse fidare. Sulla facciata del numero 35 del boulevard des Capucines, illuminata dalle lampade a gas, la gigantesca firma di Nadar in forma di insegna indica che lì sta lo studio fotografico dove si crea “l’immagine” delle persone celebri. Personaggi che già lo sono e sicuramente lo saranno. Nello studio aleggia mondanità, permeata dallo snobismo di chi si autorizzi a credersi dalla parte giusta. Da Nadar si incontrano tutti quelli che ce l’hanno con Napoleone le petit. Gli oppositori del potere. Arrivano Alexandre Dumas, Sardou e Doré, gli attori della Comédie française con Henri Rochefort, l’acceso compilatore della Lanterne, una supertascabile rivistina di opposizione che golosamente il compagnonage si passa furtivamente.

 

Bakunin era arrivato da Londra. Un veloce passaggio a Parigi e poi l’Italia: Firenze e Napoli. Una sosta parigina, fortunata per i posteri. E’ infatti in quello scappa e fuggi – come sempre – che Nadar scattò il suo ritratto. L’ormai celebrata “icona” di Bakunin che mostra e “racconta” un uomo affaticato, un evaso perenne con addosso tutte le disavventure vissute fin ad allora. E’ il 1862. Il “grosso” anarchico sta per compiere cinquant’anni. Nell’aspetto potrebbe anche avere una bella fetta di anni in più. Invecchiato nella trascuratezza di sé. Capelli non lavati da chissà quanto tempo. La barba aggrovigliata. Imbolsito. Un tipo abituato a trascinare il suo corpo con fatica. Lo sguardo fisso non sull’obiettivo della camera che gli aveva puntato addosso Nadar, ma volto a esplorare un imprevedibile futuro. La mano, che si scorge impugnare il bastone da passeggio, è gonfia, simile a un sanguinaccio. Sbuca dalla manica di una giacca piuttosto ampia, troppo “comoda” anche per la stazza di Bakunin. Sembrerebbe prestata da qualcuno, magari dallo stesso Nadar. Giacca con una qual rispettosità, più adatta per la fotografia. Per sostituire l’abito con cui Bakunin si era presentato. Il trionfo dello stazzonato decorato da un medagliere di patacche unte. Con quel ritratto Nadar consegnava alla storia l’imago di un uomo che, smarrita ogni aurea traccia dell’aristocratica origine e della scuola militare di Pietroburgo, reca tutti i segni delle complicate vicissitudini in cui negli anni si è cacciato, affidato alle leggende cresciute attorno alla sua esistenza errabonda.

 

L’evento che aveva mutato il corso della sua vita era stata, nel 1849, l’insurrezione di Dresda. Una sollevazione in concorrenza con la “primavera dei popoli” che in quegli anni infiammava l’Europa. Vi aveva partecipato con Richard Wagner, allora suo compagno di lotta. Catturato dalle truppe tedesche, il 14 gennaio 1850, già noto alle autorità per le sue intemperanze di rivoluzionario professionale, Bakunin veniva condannato a morte, pena poi commutata in ergastolo. Trasferito in Russia per scontarla, l’anno dopo varcava la soglia della fortezza dei santi Pietro e Paolo a San Pietroburgo. Fu allora il conte Orlov a sollecitarlo perché scrivesse una “confessione” allo zar Nicola I. Il duro carcere nella ferrigna fortezza, nel 1857 fu “addolcito” con l’esilio a vita in Siberia. Nel 1861 fuggì. Si spinse verso oriente. Arrivò in Giappone e da lì, imbarcatosi, varcò il Pacifico. Arrivato e attraversati gli Stati Uniti, arrivò a New York. Da lì via nave riguadagnò l’Europa. A Londra, quando si presentò a Aleksandr Herzen, era un altro uomo. I compagnons esuli sul Tamigi stentarono a riconoscerlo. Era simile a un sinistrato clochard. Imbolsito dalla fatica. Coperto di stracci, scarmigliato. Senza più denti. Li aveva perduti durante la lunga prigionia dalla quale era emerso quando ormai tutti credevano fosse morto in qualche landa gelata della Siberia. Marx gli mandò il proprio sarto perché gli confezionasse un abito.

 


Le rovine del Teatro dell'Opera di Dresda, 1849


 

Quella strana carcassa d’uomo era venuto al mondo in una famiglia aristocratica. Il padre studente a Parigi aveva assistito agli esordi della rivoluzione. Attraverso la madre praticamente imparentato con mezza Russia della vecchia aristocrazia. La tenuta di Prjamuchino, al tempo della giovinezza di Michail Aleksandrovicˇ, è un punto di incontro di una ambiziosa novizia intelligencija. Vi regna un’entusiastica quanto bizzarra semifilosofica e semimistica esaltazione che qualcuno in vena di autoconsiderazione paragona a quella che si raccoglie al castello di Coppet, intorno a madame de Staël: tutta gente autoconvinta d’essere nel giusto e a cui non andava mai bene niente. A Prjamuchino si coniugava romanticismo con rivoluzione, la filosofia idealistica tedesca intesa in senso fanatico-religioso. Il giovane Bakunin nutre una sorta di odio-amore per il padre e un amore quasi incestuoso per le quattro sorelle che non vorrebbe cedere a nessun uomo. La madre è eternamente depressa da un disperante egocentrismo. Bakunin va ovviamente a studiare a Berlino, la mecca degli ammiratori russi di Hegel e Schelling. Va a rendere omaggio a Bettina von Arnim Brentano che per parentele, rapporti e amicizie è una specie di “madonna” del Romanticismo. Bakunin la cita con fervore nelle sue lettere accanto a Fichte, Goethe, Schiller, George Sand…

 

Il passaggio dalla speculazione teologizzante all’attività radicale con vocazione alla pratica rivoluzionaria si rivela in una lettera del 1842 all’amata sorella Tatiana: “E’ la natura dell’azione, manifestare Dio dentro se stessi, in quanto atto di fiducia in se stessi… l’eterna personalità dell’uomo”. E allora eccolo Bakunin autogenerarsi in padreterno. “Il piacere della distruzione è anche un piacere creativo… Saremo felici soltanto quando tutto il globo terrestre sarà in fiamme”. Muta pelle trasformandosi in un “monaco della rivoluzione”, in asceta d’ogni tumulto. E allora bisogna darci dentro, in quella confusa Europa, madre di tutte le rivoluzioni, attraversata da bande di inquieti che voglio buttare all’aria ogni sistema. E gli scalmanati si incontrano. Prima si amano. Litigano. Si sconfessano a vicenda. Si scambiano lettere di fuoco, accusandosi l’uno l’altro d’ogni effrazione, tralignamento, nefandezza. Si chiamano Engels, Marx, Mazzini… Marx è profondamente un tedesco, non sopporta lo sfrenato panslavismo di Bakunin che si fa odiare nella Russia zarista per la sua difesa dei polacchi. Bakunin non ama i tedeschi. La loro religione gli sembra non fede ma soggezione, li rimprovera di coltivare il servilismo tale a una confessione. Odia la Russia tedesca e soprattutto la città di San Pietroburgo. In Mazzini avverte il precursore di non ancora immaginabili dispotismi.

 

Possiede l’esagitata facoltà di percepire i germi dei totalitarismi che investiranno l’Europa. Forse perché in lui si celava un dittatore monastico, un manicheo, un grande inquisitore della irrealizzabile rivoluzione totale, riflessa in quella specie di suo alter ego, l’inquietante ex seminarista Sergej Necˇaev, propalatore di una vita spirituale ascetica del rivoluzionario che dovrebbe rinunciare a tutti gli interessi personali, addirittura al proprio nome. Per Bakunin lo stato è un edificio che immola gli uomini, il dio divoratore, il Moloch che vive di sacrifici umani. Nel discorso che tenne a Ginevra nel 1867, cui assistette anche Dostoevskij, proclama “gli stati possono mantenersi soltanto a prezzo di delitti”. Parla contro ogni tirannia, sociale ed economica, contro il proletariato vittorioso. Da visionario, senza rendersene conto, prevedeva lo “strano” autodistruttivo scenario che avrebbe caratterizzato il Novecento. E oltre.

Di più su questi argomenti: