Ambra Angiolini. Dopo l’esordio a “Bulli e pupe” era finita sotto i riflettori a “Non è la Rai” di Gianni Boncompagni. Non era una diciottenne qualunque: “Io non sono normale, normali sarete voi”

L'Ambra solare

Simonetta Sciandivasci
Donna, moglie, mamma esemplare: in tv a fianco delle coppie in attesa. La Lolita esplosiva e verace non c’è più. O quasi. Ha dovuto accompagnare sua figlia ai concerti di Violetta. “Se solo penso a quante madri furono costrette a sorbirsi i miei!”.

Quando Leandro Palestrini, giornalista della Repubblica, chiese ad Ambra Angiolini di pronosticarsi il futuro, lei rispose che a venticinque anni sarebbe stata la stessa, “cresciuta ma ugualmente sopra le righe”. Non aveva nemmeno compiuto diciotto anni, era ovvio che i 25 rappresentassero, per lei, il giro di boa, l’età a partire dalla quale la vita comincia a essere nostra commercialista, mentre invece, in fondo, è ancora l’età dell’innocenza e degli errori colposi. E poiché Ambra non era una diciottenne qualunque (“io non sono normale, normali sarete voi”), tanto che sapeva già che crescere c’entra poco col cambiare, azzeccò il pronostico. Di anni, adesso, ne ha trentanove e non ha smesso di svolazzare sulle righe. La prova? Da due settimane conduce “Coppie in attesa” (ogni martedì sera su Raidue), un docureality che racconta donne e uomini prossimi a diventare genitori e da ieri è in commercio il vinile di “T’appartengo”, il suo primo disco solista, 370 mila copie vendute, 100 mila solo nella prima settimana (11-17 novembre del 1994), tre dischi di platino, sesto in classifica per settimane. La sua crisalide.

 

Il cult che l’ha iscritta nell’iconologia degli anni Novanta e che lei non ha mai rinnegato, salvo usarlo, a volte, per irridersi: “Mi sta bene aver dovuto accompagnare mia figlia ai concerti di Violetta: se solo penso a quante povere madri furono costrette a sorbirsi i miei!”, ha detto a “Le invasioni barbariche”, l’ultima volta che è andata a farsi torchiare da Daria Bignardi, nel 2014 (la prima, sette anni avanti, aveva baciato la conduttrice sulla bocca). Per quelle madri, però, Ambra era un dispetto al buoncostume, al femminismo, al decoro. Una cattiva compagnia, una sabotatrice di valori. La ritenevano capace di ridurre il cervello delle loro bambine a uno scacciapensieri e per questo accompagnarle ai suoi concerti apriva tutte le volte un dramma etico. Le millennial più attempate possono testimoniare di coprifuochi televisivi inflessibili: la fronda delle mamme era piuttosto compatta nel proibire che ogni pomeriggio la prole rincretinisse davanti a “Non è la Rai”, l’harem di Gianni Boncompagni (così lo definivano, spesso, sulla Repubblica), dove Ambra, dopo l’esordio a “Bulli e pupe” (altra creatura di Boncompagni), era finita sotto i riflettori, impiegandoci pochissimo a diventare la cocca, la prima della classe e a spadroneggiare in studio come se fosse a casa sua, mettere al tappeto tutte le altre.

 

I cassetti delle adolescenti italiane venivano costantemente setacciati da genitori alla ricerca di poster, musicassette, “Cioè” (giornaletto, edito tuttora), figurine delle bimbe di Fininvest: tutto materiale che veniva prima sequestrato e poi gettato via insieme all’umido (correvano i predoni anni Novanta e non si faceva la raccolta differenziata), quindi era impossibile recuperarlo. Violetta, la protagonista canterina dell’omonima serie Disney che ha fatto impazzire tutte le ragazzine di oggi compresa Jolanda, la primogenita di Ambra, invece, non preoccupa nessuno: è una reginetta dell’ovvietà, una modesta orfanella buona, con la fronte aureolata di pensieri felici, il cuore di panna, la voce rosa, i vestitini carta da zucchero e ogni tanto una felpa da collegiale. Ambra era una Lolita grunge mai felice e sempre gioiosa. Esplosiva, verace. Immaginiamo l’Italia che, negli anni del riflusso, perbenista, moderata, con la fiducia smembrata da Tangentopoli, di pomeriggio accende la tv e vede una minorenne che canta “T’appartengo ed io ci tengo e se prometto poi mantengo. M’appartieni e se ci tieni tu prometti e poi mantieni”, guardando dritto nella telecamera come Milly Carlucci e Raffaella Carrà non avevano mai osato fare, vestita con un top, un paio di short tenuti su da due bretelle e una cravatta simile a quella di Patti Smith: mannish, teen, casual, acerba e con sex appeal in fiore ma già mesmerico.

 



 

“Ti giuro amore, un amore eterno, se non è amore me ne andrò all’inferno, ma quando ci sorprenderà l’inverno, questo amore sarà già un incendio”, in mezzo a decine di altre minorenni ammaestrate, che la odiavano e subivano, perché Ambra faceva ombra su chiunque le stesse vicino, era troppo piccola per controllarsi, doveva ancora imparare a non dare fastidio, a fare l’attrice, a eseguire e basta. Era uno spettacolo spregiudicato, osteggiato da tutti, da Famiglia Cristiana al Telefono Azzurro (“può creare comportamenti patologici negli adolescenti, indurli a cercare la propria identità in un falso sé”, denunciava l’allora presidente Ernesto Caffo, che era pure docente di neuropsichiatria infantile). Ambra era la vestale di questo rito orgiastico, il peggiore della Babele televisiva scaraventata nel tubo catodico degli italiani per sottometterli al secondo ventennio della sua sgarrupata storia: la Fininvest, il biscione.

 

Vasco Rossi le scrisse una canzone, nel 1993: “Ehi tu, delusa, attenta che chi troppo abusa rischia poi di più e se c’è il lupo rischi tu!”: persino a lui non andava giù quella sciamannata che a ora di pranzo entrava nelle case degli italiani scatenandosi e conversando del niente con una maestria che tutti credevano pilotata perché in Italia ammettiamo che siano nati col talento solo Michelangelo Buonarroti e Leonardo da Vinci. La leggenda dell’auricolare tramite il quale Gianni Boncompagni suggeriva ad Ambra tutto quello che doveva dire e fare, nonostante le smentite di entrambi, è scalfita nella memoria collettiva, che la dà ancora per fatto certo. Ambra telecomandata e “replicante”, scrisse il Corriere della Sera. “Non siamo ambranate, ma studentesse laureate”: a questo grido, cinquecento femministe marciarono, l’otto marzo del 1994, pochi mesi prima di “T’appartengo”, sugli studi del Centro Palatino. A venticinque anni dal sessantottino “l’utero è mio e me lo gestisco io”, trovavano ingiustificabile che venissero mandate in onda delle bamboccette scollacciate che non sembravano minimamente attraversate dalla ricerca del senso delle cose, ma erano solo immerse nel compiacere i maschietti, come ninfette robotizzate.

 

Trasalivano all’idea che la capobanda di quel gineceo fosse una burattina. Ma “quel Boncompagni lì”, gran buontempone, non era Cyrano De Bergerac: nel microfono collegato all’auricolare di Ambra o sussurrava frasi irripetibili, insulti al pubblico, parolacce o ruttava. L’hanno raccontato entrambi. Accecate dalla furia femminista, le laureate non ambranate non riuscirono a vedere che Ambra, ancora minorenne, nel teorema maestro-allieva aveva introdotto la novità della simbiosi. Che quella ragazzina non permetteva a nessun gigante di mettersela sulle spalle come una nanetta: con lei si doveva interagire da pari a pari. “Tu fai l’amore, Adriano?”, chiese a Celentano, dopo averci fatto un giro in Vespa. Era il 1996, aveva diciannove anni, conduceva “Super”. Lui, che di anni ne aveva cinquantotto, le rispose di sì e lei aggiunse, quasi schifata, “oddio, pensavo di no! Hai sconvolto la sola certezza che avevo”. Chiunque, al suo posto, avrebbe ricorso al lei dei citrulli, domandato di musica, Zeitgeist, dissesto culturale. Lei, invece, ridendo complice, ridendo sempre, fece presente a Celentano che in molte lo consideravano un maschilista per colpa di “Così come sei” (contenuta nell’album “Arrivano gli uomini”): “Come può piacerti una donna tanto spudoratamente ai tuoi piedi come quella della tua canzone?”. Lui le spiegò che il vero servo, in quel pezzo, era il maschietto che, ammaliato dall’amore di lei, non osava nemmeno toccarla. E poi aggiunse “Tu cosa cazzo pensi, Ambra?”, come fosse una sua amica e sapendo bene di non metterla in difficoltà.

 

Un’altra si sarebbe liquefatta, ma lei rise di gusto, come sempre. Ha sofferto profondamente, da più grande, d’insicurezza, ma di servilismo intellettuale no, nemmeno per sogno. “Non ho mai detto che mi sento Mina: dico solo che come cantante mi piace Giorgia”, disse nel 1995. Forse questo lo doveva anche a Gianni, uno che in un paese trombone come il nostro ebbe l’ardire di dichiarare “sì, faccio programmi senza contenuti e non ci vedo niente di male”, mentre tutti si chiedevano come fosse possibile che dell’impegno civile non fosse rimasto nulla, senza mai considerare che spazzarlo via era il solo modo, forse, per ricucire le ferite degli Anni di piombo (Ambra nacque il giorno in cui Francesco Cossiga proibì, per un mese, manifestazioni in tutto il Lazio perché era stato ucciso l’ennesimo poliziotto in uno scontro con gli studenti autonomi e lui voleva che finisse “il tempo dei figli dei contadini meridionali uccisi dai figli della borghesia romana”).

 

“Ma basta con questo Settantasette!”: Ambra alla Bignardi, esattamente trent’anni dopo. Ed è chiaro, allora, che lei aveva capito che Boncompagni non aveva addormentato le coscienze di nessuno, ma risposto al bisogno di sbracare, restituito la licenza di fare sogni semplici e rudi imbambolandosi davanti a uno schermo (nel film “America” di Gianni Amelio, gli albanesi guardano “Non è la Rai” e “Ok, il prezzo è giusto” e si convincono che l’Italia è il paese giusto in cui emigrare non solo perché è il più vicino e ricco, ma pure perché è libero e sexy). Ecco spiegato come mai Ambra dichiarò alle “Iene”, nel 2001, che avrebbe mandato sua figlia a fare “Non è la Rai” (nella stessa intervista, quando le domandarono se fosse clitoridea o vaginale, rispose “clitoridea, perché mi sembra una parola più intellettuale” e confessò che gli uomini che le avevano giurato di amarla erano stati solo due).

 

Ora che mamma lo è davvero ed è diventata una professionista dello spettacolo rassicurante al punto da condurre un programma in cui accompagna i genitori a diventare genitori, vestendo panni che talvolta ricordano quelli di Alberto Angela e talaltra quelli della casalinga suicida di “Desperate Housewives”, quella che desumeva il corso degli eventi dalla morale della favola e non il contrario, viene il dubbio che non direbbe la stessa cosa e che per Jolanda preferirebbe l’Accademia d’arte drammatica (Boncompagni ha detto una volta che “Non è la Rai” era la Silvio D’Amico del piccolo schermo). Non riusciamo a evitare questa supposizione. Non riusciamo a scrivere di lei senza dire che l’eterna ragazza è cresciuta, la Lolita prodige è diventata donna, moglie, mamma esemplare, perché ci sembra ancora un paradosso, un assurdo. Tra “T’appartengo” e “Coppie in attesa”, miss Angiolini ha vinto David di Donatello; recitato Harold Pinter; fatto la radio; diretto videoclip; duettato con Baudo; mandato al diavolo Teo Teocoli e Gene Gnocchi che volevano darle un copione (“io vado a braccio”); ispirato un varietà a Enrico Ghezzi, poemetti ad Aldo Nove (“Ambra forever”) e versi agli Articolo 31 (“siamo nell’anno 2030 e Ambra è il primo presidente donna”); condotto gay pride; preso marito (Francesco Renga); fatto due bambini e lasciato Roma per Brescia, per tenere la famiglia unita. Nonostante questo, l’Huffington Post di pochi giorni fa, nel dare la notizia del suo nuovo fidanzamento dopo lo sfascio del matrimonio con Renga, l’ha indicata così: “La showgirl di Non è la Rai”.

 

Proprio per questo, il vinile di “T’appartengo” non sarà un cimelio vintage, bensì una macchina di ritorno al futuro per le ragazze che, forse ultime della storia, hanno idolatrato un’icona sgradita ai propri genitori. Consapevoli che se sono diventate più sbarazzine e capaci di sbadigliare quando Laura Boldrini parla di sessismo, lo devono anche a quei pomeriggi proibiti passati a cantare che avrebbero giurato amore eterno al compagno di banco con l’apparecchio, i pomeriggi nei quali marinavano lo studio e vivevano da adolescenti, sognando di essere non come Giovanna D’Arco (morire, perché mai?) ma come Ambra nel film “Favola”, dove guida il motorino senza casco e porta un principe a fare il giro di Roma, la sola femmina capace di soffiare la parte a Gregory Peck senza arrossire e (almeno allora) senza saper recitare.

 

Orgogliose di aver difeso Ambra ben prima che lei attraversasse le tappe del riconoscimento italiano: il matrimonio, i figli, le targhe, i premi, il capelli lisci, la gestione equilibrata della privacy, le interviste sulle riviste femminili in cui far emergere le insicurezze, la bulimia, il pudore. Fiere che “T’appartengo” suoni così bene ed abbia ancora qualcosa da insegnare: per esempio che “i problemi tuoi sono problemi miei, bisogna dirsi tutto tra di noi e a tutti gli altri poi non lo diremo mai”. Libere di poter dire che di “Non è la Rai” si sente la mancanza e felici di essere la prova che alle apocalissi paventate da Telefono Azzurro, Vasco Rossi, Repubblica, sono sopravvissute e che hanno superato indenni le correnti generazionali senza un super eroe azzurro affianco. Certe, soprattutto, che Ambra non è stata disinnescata, perché la giovinezza non è una bomba, ma un fiore.

 

La mammina madrina di “Coppie in attesa”, qualche settimana fa ospite da Giletti, alla domanda “cosa hai imparato a dire in bresciano?” ha risposto “quello che vorrei dire ora a te in questo momento”. La parola era “mammuchela”, che significa “finiscila”. E’ rimasta la stronza faccia tosta che era quando ci dimostrò che non per forza le stronze sono ex buone traumatizzate: a volte, sono solo ragazze che vogliono divertirsi, anche sulla pelle delle amiche. Si può essere madri esemplari e compite rimanendo rock’n’roll senza sembrarlo (Courtney Love lo è rimasta sembrandolo e le casca la faccia a pezzi, insieme alla dignità). Franco Buffoni, poeta, in “Jucci” scrive: “Non ci sono ragioni, non si nasce né si diventa: si è. Con la verità infilata dentro come un orecchino”. Ad Ambra sta a pennello.

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