Il problema è che per il governo democratico la libertà religiosa altro non è che la libertà di culto, cioè il diritto di credere in chi o in cosa si vuole. Purché lo si faccia in casa o nei luoghi co

"In God we trust" addio: nella patria della libertà religiosa la fede è ridotta a feticcio privato

Matteo Matzuzzi
Nell’ultimo rapporto sullo stato della libertà religiosa in America pubblicato dal First Liberty Institute sono documentati più di 1.200 casi che dimostrano come l’assalto a quello che il giurista cattolico di Princeton Robert George ha definito “il cuore morale della Costituzione” sia senza precedenti. Attacchi palesi, nello spazio pubblico, eclatanti.

“Il dovere dell’uomo di onorare Dio precede sia in ordine temporale sia per grado di obbligo le pretese della società civile. Un uomo, prima ancora di essere considerato un membro della società civile dev’essere considerato un suddito del Governatore dell’universo” (James Madison, 1785)


 

L’America è pronta a sacrificare i benefici che derivano da un sistema religioso aperto sull’altare del moderno politically correct?, si domandava neppure un lustro fa Rodney Stark, il sociologo delle religioni della Baylor University. Questione di numeri, insisteva, ricordando quanto positivo fosse l’impatto della religione negli Stati Uniti circa la riduzione del crimine, il miglioramento dell’istruzione e della salute fisica e mentale, nell’aumento dell’occupazione e nella stabilizzazione del welfare. Un affare da molti miliardi di dollari l’anno. Eppure, a guardare l’ultimo rapporto sullo stato della libertà religiosa in America pubblicato dal First Liberty Institute, pare che l’ariete da sacrificare abbia già poggiato il capo sulla roccia, in attesa del colpo fatale. Un’ostilità che si ingrossa come i fiumi durante un’alluvione, un “diluvio che sta sommergendo cittadini normali che semplicemente tentano di vivere in modo normale, in pace con la propria fede e la propria coscienza”, sottolinea il dossier. E via con l’elenco degli esempi in cui la più cara delle libertà per un americano, la first freedom, è presa di mira, minata nei suoi tratti più profondi. Più di 1.200 casi documentati – il computo non “è esaustivo”, si puntualizza subito – che dimostrano come l’assalto a quello che il giurista cattolico di Princeton Robert George ha definito “il cuore morale della Costituzione” sia senza precedenti. Attacchi palesi, nello spazio pubblico, eclatanti. Ne è un esempio Edmond City, privata dell’emblema adottato cinquant’anni fa perché prevede una croce latina. Si voleva ricordare il ruolo della chiesa cattolica nello sviluppo dell’ovest – il Papa a settembre ha canonizzato Junipero Serra proprio per tale motivo, nonostante i vivaci moti di protesta dei nativi americani che in quello spagnolo emigrato in California vedevano più un satrapo che un evangelizzatore – ma per il tribunale locale mettere una croce su uno stemma cittadino significa abbracciare una fede. Nell’America di oggi, dove c’è chi trascina in giudizio uno sceriffo della Florida perché accusato d’aver decorato le auto di servizio con il motto nazionale (e dello stesso stato) In God we trust – che diverse associazioni agnostiche volevano bandire perfino dalle banconote – accade spesso.
Dopo otto anni di presidenza obamiana che hanno progressivamente (ma con costanza) ricacciato la libertà religiosa nell’ambito della sfera privata, nel nome dell’ideale egalitario che presuppone la neutralità di tutto ciò che è pubblico rispetto alle proprie convinzioni religiose, è quasi la routine. Quella pretesa di neutralità che Antonin Scalia, per l’ultima volta un mese prima della morte avvenuta lo scorso febbraio, definiva assurda, frutto di una “distorsione praticata dai giuristi attivi negli anni Settanta”, convinti che “ogni traccia di ‘religioso’ dovesse essere bandita a favore di uno spazio pubblico del tutto secolare”. Ma nella Costituzione non c’è scritto nulla di tutto questo, aggiungeva l’originalista chiamato da Ronald Reagan alla Corte suprema: “Non si può favorire una denominazione religiosa piuttosto che un’altra, è vero. Ma non sta scritto da nessuna parte che non si possa privilegiare la religione anziché la non-religione”. Non è dello stesso avviso il governatore dello stato di Washington, che ha permesso di installare nel Campidoglio locale la scritta “Non ci sono divinità, non ci sono demoni, non ci sono angeli né Paradiso o Inferno. C’è solo il nostro mondo naturale. La religione è mito e supersitzione che indurisce i cuori e schiavizza le menti”.

 


“La nostra Costituzione è stata fatta solo per un popolo morale e religioso. Essa è del tutto inadeguata al governo di qualsiasi altro tipo di popolo” (John Adams, 1789).


 

Chissà se Scalia, nel suo j’accuse in punta di diritto, si riferiva anche a quanto accaduto a Middleborough, in Massachussetts, dove – sempre in nome del sacro principio della laicità – è stata richiesta la demolizione di una croce alta tre metri e mezzo eretta cinquant’anni fa in mezzo a uno spartitraffico (in California, a Santa Clara, è stata chiesta la rimozione della croce innalzata trecento anni fa in una vecchia missione cattolica). O forse il giudice pensava a Christian Parks, lo studente del Thomas Nelson College, in Virginia, cui era stato intimato di “non pregare o discutere i propri punti di vista religiosi nell’area comune dell’istituto”. Il motivo? “Gli altri studenti avrebbero potuto trovare offensivi tali opinioni”. Inoltre, per dare una giustificazione burocratica al divieto, si fece presente a Parks che non aveva chiesto il permesso ai dirigenti con almeno quattro giorni d’anticipo. Lo studente fece ricorso, lamentando la limitazione non solo della libertà di professare una religione, ma anche di parola. Vinse.

 

Caso dopo caso, dalla costa orientale a quella occidentale, è come un’alluvione, che inizia con una pioggia tambureggiante, quindi ingrossa rigagnoli e corsi d’acqua, fino a rompere gli argini allagando tutto. John Courtney Murray, il gesuita newyorchese che trascorse la vita teorizzando l’abbraccio perpetuo tra Vangelo e Costituzione e che ha posto – inconsapevolmente, essendo morto nel 1967 – le basi per il cattolicesimo postconciliare americano, l’aveva predetto con lucidità: si rischia di ridurre la religione a “mere credenze” o a “opinioni”. Tutto, insomma, meno che a identificarle con delle verità. Con questi presupposti, ha scritto Hadley Arkes, giurista all’Amherst College, è ovvio che se si ha a che fare solo con delle “credenze”, al massimo si potrà chiedere di non essere assoggettati a leggi imposte e valide per gli altri. Ma questo “è del tutto in contrasto con la dimensione morale della questione. Si fa reclamo per esercitare un diritto”. Un po’ come gli enti di ispirazione religiosa costretti a offrire nei rispettivi piani assicurativi contraccettivi e farmaci abortivi. Ne sanno qualcosa le Piccole sorelle dei poveri, che proprio per questa ragione dal 2012 sono impegnate in una eroica battaglia legale contro l’Amministrazione obamiana. Dalla loro parte hanno il Papa, che lo scorso settembre, trovandosi negli Stati Uniti per la sua prima visita apostolica nel paese, ha scelto come fuori programma di andare a trovare proprio le religiose. Un gesto che era “chiaramente un segno del suo sostegno nei loro confronti”, avevano subito sottolineato dal Vaticano. Il problema è che per il governo democratico la libertà religiosa altro non è che la libertà di culto, cioè il diritto inalienabile di credere in chi o in cosa si vuole. Purché lo si faccia in casa o nei luoghi consoni, nell’intimo ardore della propria coscienza, senza alcuna pretesa di elevare tale libertà nella dimensione pubblica. E’ la sconfessione del modello americano classico di libertà religiosa, al centro del quale – come scrisse Harold Berman – vi è una visione della sacralità e del destino della persona umana religiosamente ispirata.

 


Papa Francesco visita (a sorpresa) le Piccole sorelle dei poveri, lo scorso settembre a Washington. Dal 2012, le religiose sono impegnate in una battaglia legale contro l'Amministrazione Obama sul tema della riforma sanitaria.


 

Già quattro anni fa, il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York e per un triennio energico presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, opponendosi allo schema dell’Obamacare scriveva che “quest’ultima erosione della nostra Prima libertà dovrebbe interrogare tutti gli americani. Quando il governo manomette una libertà così fondamentale per la vita della nostra nazione, uno rabbrividisce pensando a ciò che ci aspetta”. Appena eletto alla guida dei vescovi americani (sul finire del 2013), il successore di Dolan, mons. Joseph Kurtz, aveva messo in fila una dopo l’altra le contraddizioni dell’approccio obamiano verso la first freedom, servendosi proprio della povertà, tema su cui il presidente che promise il change alle masse che sognavano l’agognata e definitiva emancipazione, ha tentato di costruire un’ideale assonanza con il Pontefice preso quasi alla fine del mondo. Citava, Kurtz, proprio le Piccole sorelle, quando domandava all’inquilino della Casa Bianca se esse “rischieranno di pagare multe salate o violeranno le convinzioni più profonde per evitare di pagare migliaia di dollari in sanzioni”.

 

Il destino è l’irrilevanza. Il Papa, in uno dei suoi primi interventi istituzionali in terra americana, proprio alla libertà religiosa fece appello, ringraziando Barack Obama per l’accoglienza alla Casa Bianca: “Assieme ai loro concittadini, i cattolici americani sono impegnati a costruire una società che sia veramente tollerante e inclusiva, a difendere i diritti degli individui e delle comunità, e a respingere qualsiasi forma di ingiusta discriminazione. Assieme a innumerevoli altre persone di buona volontà di questa grande democrazia, essi si attendono che gli sforzi per costruire una società giusta e sapientemente ordinata rispettino le loro preoccupazioni più profonde e i loro diritti inerenti alla libertà religiosa. Questa libertà – aggiungeva Francesco – rimane come una delle conquiste più preziose dell’America. E, come i miei fratelli vescovi degli Stati Uniti ci hanno ricordato, tutti sono chiamati alla vigilanza, proprio in quanto buoni cittadini, per preservare e difendere tale libertà da qualsiasi cosa che la possa mettere in pericolo o compromettere”. Il che non significa arroccarsi a difesa del fortino costruito a protezione dei cosiddetti princìpi non negoziabili, chiudendosi “nel recinto delle paure, a leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna e preparando risposte dure alle già aspre resistenze”, come ebbe a dire il Pontefice nella cattedrale di san Matteo, a Washington. Quasi che tutto ciò che è al di là dello steccato sia intriso di peccato, mortifero, da evitare. Ma neppure si tratta di ridurre la libertà religiosa “a una sottocultura senza diritto di espressione nella sfera pubblica”, come avrebbe detto all’Indipendence Mall di Philadelphia in uno dei discorsi più significativi pronunciati durante il viaggio negli Stati Uniti.

 

Il ritorno nelle catacombe, insomma, come destino. La negazione dell’anima stessa della Costituzione americana indicata nel 1789 da colui che sarebbe divenuto presidente al termine del doppio mandato di George Washington, John Adams: “La nostra Costituzione è stata fatta solo per un popolo morale e religioso. Essa è del tutto inadeguata al governo di qualsiasi altro tipo di popolo”. Il fatto è che “non possiamo capire l’assetto delle istituzioni americane – o i valori che queste istituzioni hanno lo scopo di promuovere e difendere – se non riconosciamo che esse si sono sviluppate a partire da una visione del mondo prevalentemente cristiana”, notava tempo fa l’arcivescovo di Philadelphia, il cappuccino Charles Chaput. Certo, proseguiva, non va taciuto l’influsso dell’ebraismo e del diritto romano, così come quello fondamentale dell’Illuminismo, ma dopotutto anche quest’ultimo è figlio del cristianesimo. Il punto è che “qualunque cosa diventi in futuro, l’America è nata protestante, una cosa che gli osservatori stranieri sembrano spesso comprendere meglio degli americani”, scriveva Chaput sulla rivista Oasis nel 2012.

 


“Non si può favorire una denominazione religiosa piuttosto che un’altra, è vero. Ma non sta scritto da nessuna parte che non si possa privilegiare la religione anziché la non-religione” (Antonin Scalia, gennaio 2016).


 

Si prenda Dietrich Bonhoeffer, il pastore luterano eliminato sotto la scure nazista, che era giunto alla conclusione – dopo un soggiorno di studio e di insegnamento a New York – che “la democrazia americana non è fondata sull’uomo emancipato, bensì sul regno di Dio e sulla limitazione da parte della sovranità di Dio di tutti i poteri mondani”. Ecco l’ideale della shining city upon a hill, la splendente città sulla collina, metafora dell’America mitica dove tutto è possibile. Un’immagine che stride con quanto si legge nel rapporto del First liberty Institute, come nel caso di Brandon Jenkins e Dustin Buxton, non ammessi al programma di radioterapia del Community College di Baltimora perché rei d’aver parlato della propria fede durante in colloqui preliminari. “In questo campo non c’è spazio per la religione”, è stato loro spiegato dalle autorità del College a mezzo lettera. Con l’aggiunta decisiva: “Se in futuro parteciperete a un colloquio, vi consigliamo di non menzionare i vostri pensieri e le vostre credenze”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.