Un equivoco chiamato ipocritamente “famiglia tradizionale”, ma che in realtà è la sopravvivenza degenerescente di un istituto borghese ottocentesco

Sesso di colpa

Alessandro Giuli
Le due fazioni impegnate nella lotta di genere, tra nozze e adozioni gay, si disputano le spoglie d’uno stesso cadavere. E la chiamano famiglia. Un idealuzzo per collitorti nostalgici, un banchetto per saprofiti progressisti e aspiranti pantofolai in piume di struzzo

Un giorno un banchiere colto e ricco, modernissimo, azzimato, genderista ma con un pudore speciale nel tenersi lontano dalla scena ideologica, presentissimo ma appunto in virtù di un’assenza attiva, mi confidò in via amichevole: vuoi fare i soldi? Sfrutta il senso di colpa, come hanno fatto quelli come me. Il senso o il sesso di colpa?

 

L’amore è un’altra cosa. Il vostro si chiama senso di colpa, anzi sesso di colpa. E’ l’impossibilità di stare in mezzo a una rivoluzione antropologica chiamata gender, matrimonio omosex, adozioni gay, utero in affitto. Ma c’entrano anche le relazioni etero e il vuoto che oggi sembra sorreggerle. E’ anche l’impossibilità di starci dentro senza inclinare, che si parteggi per il sì oppure per il no, verso l’utilizzo dell’arma micidiale con la quale l’occidente ha misurato e smisurato la propria grandezza in due millenni di voluttà autodistruttiva. Non è subito una questione di linguaggio, di violenza verbale, sebbene agli eccessi colpevolizzanti dell’una e dell’altra parte in tragicommedia si accompagni sempre una certa inibizione linguistica travestita da bon ton, l’incapacità ormai retorica di chiamare le cose con il loro nome, per esempio la finzione del dire unioni civili per non concedere che al centro della scena c’è una coppia dello stesso sesso che rivendica una vita eccezionalmente simile a quella etero. Prima di questo, dicevo, c’è un bastone nodoso chiamato senso di colpa che viene impugnato e scaraventato con brutale automatismo sulla testa del nemico ideologico. Provo a riassumere spersonalizzando. Gli uni argomentano così: ci state negando un diritto civile fondato sulla parola “amore”, riconosciuto in tutto il mondo, caldeggiato dall’Europa, sancito da sentenze giudiziarie, reso possibile dai dispositivi della tecnica e da adeguate risorse economiche; e ancora: state derubando i bambini del diritto di avere un genitore purchessia nel caso in cui quello naturale muoia; e infine: se prima eravamo invisibili, oggi siamo visibilmente discriminati. Gli altri obiettano: pretendete di trasformare il desiderio della contemporaneità in un diritto eterno, un difetto addomesticabile dal codice civile nella leva per disarticolare la ragione naturale soppiantandola con una rivolta culturale; nel caso della maternità surrogata e della conseguente adozione, agite mercificando il corpo di donne gestanti bisognose di denaro, e lo fate a scapito dei nascituri, del loro diritto di avere un padre e una madre, un allattamento immediato e avvolgente da parte della mamma naturale, insomma una normalità che il fato vi nega e vi negherà sempre: non è amore il vostro, è egoismo.

 

Entrambe le fazioni, sul piano della dialettica più emotivamente connotata, presentano alcuni tratti credibili, il fronte dei contrari ne ha qualcuna in più, forse. Entrambe le fazioni evitano accuratamente di ammettere che si stanno disputando lo stesso osso, come le cagnette di “Bocca di rosa”. E questa preda, comunque la si voglia vedere o dovunque la si voglia dilatare, è un equivoco sdolcinato detto ipocritamente “famiglia tradizionale”, ma che in realtà è la sopravvivenza degenerescente di un istituto borghese ottocentesco, un’oleografia decomposta risalente ai bozzetti sentimentali tardo-romantici, là dove la virilità e la femminilità – poli archetipici di un mistero divino – si rivestono di sovrastrutture romanzesche (la Bovary c’est nous!), scolorano nella banalità della procreazione sconsacrata, s’avvitano nel loro calco negativo che è l’infedeltà e la violenza seriale. Un idealuzzo per collitorti nostalgici radunati in piazza, un banchetto per saprofiti progressisti e aspiranti pantofolai in piume di struzzo contro i quali, in tempi non sospetti, si riversarono la deliziosa satira accomodante di Jean Poiret (“Il vizietto”, 1978) e l’elegante fiele dell’omosessualismo altero per la propria carica anormale ed eversiva (Alberto Arbasino, Tommaso Cerno: “Mi chiedo che cosa ci sia di rivoluzionario e giacobino nell’immagine di una coppia gay che passeggia per il prato di una villetta residenziale portando a spasso il cane”…). Insomma il degno e asessuato finale di “Trainspotting”: “E’ l’ultima volta che faccio cose come questa… metto la testa a posto, vado avanti, rigo dritto, scelgo la vita. Già adesso non vedo l’ora. Diventerò esattamente come voi: il lavoro, la famiglia, il maxi televisore del cazzo, la lavatrice, la macchina, il cd e l’apriscatole elettrico… buona salute, colesterolo basso, polizza vita, mutuo, prima casa, moda casual, valigie, salotto di tre pezzi, fai da te, telequiz, schifezze nella pancia, figli, a spasso nel parco, orario d’ufficio, bravo a golf, l’auto lavata, tanti maglioni, natale in famiglia, pensione privata, esenzione fiscale, tirando avanti, lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai”. Tutto qui? Il trionfo banale del genio della specie schopenhaueriano, prologo dell’imbestiarsi.

 

Se questo è il matrimonio, dico e ridico ancora, non lo auguro a nessuno. Come la galera. Meglio allora un cazzotto (metafora) patriarcale di quelli tirati quasi paganamente dal radicalismo che s’è abbeverato ai nihilisti attivi Nietzsche e Guillaume Faye: “Andiamo! Ho sentito dire che bisogna difendere la famiglia ‘normale’. Ma cos’è? Quella patriarcale, con il diritto da parte del Pater Familias di vita e di morte, che ha una partecipazione clanica e tribale a quella comunità di destino che va dagli antenati ai discendenti? O lo sarebbe il nucleo sentimental-sessuale della coppia che si vuol bene (cuoricino, cuoricino) e che si occupa di ridurre le difficoltà sue e dei figli regolarmente viziati? Perché se parlate di questo modello, modernissimo e anglosassone, allora di normalità io non ne vedo proprio l’ombra. E che questo modello non sia difendibile lo attesta una semplice riflessione che può fare davvero chiunque. Pensate a tutti coloro che odiate o disprezzate, a tutte le depravazioni a cui volete ribellarvi. Ebbene di che sono il frutto? Di chi sono figli se non di queste famiglie ‘normali’, tutti quelli che vi fanno indignare? Cosa volete difendere allora e soprattutto perché?” (Gabriele Adinolfi). Sul modello patriarcale arcaico nulla avrebbe potuto il senso di colpa, prima che arrivassero le conversioni forzate in età tardo-antica. Altro che Novecento, la dissoluzione del patriarcato autentico, che è cosa diversa dall’itifallismo narcisista d’ogni implausibile meridione, è assai più risalente di quanto non si creda, e la sua più recente messa in questione non è che l’effetto di una causa lontana: la fine della familia come comunità di destino gentilizio nella quale una coppia spiritualizza l’Amor e genera (sul lecuts genialis!) per propiziare l’incarnzione delle variegate possibilità trasmigratorie di un avo primordiale, frammenti d’un nume; sive mas, sive foemina. Impensabile, oggi? Indicibile, causa senso di colpa inoculato dalla malintesa e presuntuosa idea di progresso, di avanzamento, di conquista ineluttabile, come se dal “meno” potesse nascere un “più”. Dalla secessione individualistica di Tertulliano al materialismo dogmatico e, esito inevitabile quanto solidale, al libertarismo militante. Dalla lotta di classe alla lotta di genere, con la resistenza confessionale monoteistica ormai irrimediabilmente ammaccata da quel nome di dio che “è-donna-misericordia” pronunciato da Bergoglio. Nemmeno più risuona l’eco stonata del matriarcato bachofeniano dipinto come l’età poetica del mondo, con le sue varianti amazzonico-lunari. Oggi prevale l’indistinto, la denuclearizzazione dell’identità sessuale di cui sono stati e sono portatori insani entrambi i fronti in lotta sui così detti diritti civili.

 

Il punto di vista patriarcale si fonda su una scienza sacra dei legami erotico-famigliari e del concepimento tra pater e materfamilias, immagini viventi della ierogamia celeste tra Giove e Giunone; legami che tuttavia hanno senso soltanto se siano il centro vitale di un organismo più sacro ancora chiamato res publica. I Romani lo espressero così: “Del resto la Patria non ci ha generati e allevati a questo patto, che essa non debba aspettarsi da noi alcun sostentamento e che, servendo solo ai nostri bisogni, debba offrire sicuro rifugio al nostro ozio e placido porto alla nostra tranquillità; ma, piuttosto, affinché noi riserbiamo in lei la parte migliore del nostro animo, del nostro ingegno, della nostra saggezza, lasciando alle nostre private comodità solo quanto a lei sopravvanzi” (Cicerone, De Officiis). Gli Elleni dorici, spartani come Licurgo o laconizzanti come Platone che fossero, ci hanno lasciato un modello simile per quanto estremizzato nella diluizione integrale della famiglia nella cosa pubblica. In termini più misterici, diciamo così, basterebbe indicare il cielo e la terra come simboli di ciò che sta in alto e ciò che sta in basso, visti nella loro fusione ermetica per ripristinare dalla diade l’Unità dei primordi. Ma invece di ricorrere alla “Metafisica del sesso” evoliana, densa di sapienza occulta ma anche gravida di dualismo irrisolto, perché gelato da una brumosa incrostazione misogina, il punto di vista patriarcale può anche ricorrere alle parole dei nativi americani romanzati dal profondo di D. H. Lawrence: “La terra ha baciato le mie ginocchia, e ha dato la forza al mio ventre; il cielo s’è appollaiato sul mio pugno e m’ha messo la forza nel petto. Ma una stella può sorgere in noi tra il cuore e i lombi come al mattino c’è la stella mattutina che sta tra terra e cielo. E questa è la virilità nell’uomo, la femminilità nella donna. Correte e correte tutto in giro, e vi affannate, e morite, ma in voi non sorge la stella della virilità, in voi non splende la stella della femminilità, tra i vostri seni. E io vi dico che la stella della virilità può sorgere appena uno lo vuole, e così egli sarà pieno di fierezza, e sarà perfetto come la Stella Mattutina è perfetta. E anche nella donna la stella della femminilità può levarsi alla fine tra il margine pesante della terra e il vuoto grigio e deserto del cielo. Ma come, come può avvenire, come riusciremo? Come diventeremo, noi uomini, Uomini della Stella del Mattino? E le donne, Donne della Stella dell’Alba. Ecco, abbassate le dita alla carezza del serpente della terra. E tendete il pugno all’uccello lontano del cielo, che discenda ad appollaiarvisi. E abbiate il coraggio che hanno entrambi, il coraggio del fulmine e quello del terremoto. E la saggezza di entrambi, dell’aquila e del serpente. E di entrambi la pace, la pace del Serpe, e la pace del Sole. E la potenza anche, del più profondo della terra, del più remoto del cielo” (“Il serpente piumato”, traduzione di Elio Vittorini). Un dio vivente nell’uomo, una dea vivente nella donna, un lignaggio che fiorisce perpetuo.

 

Ma il terzo sesso, dove lo mettiamo? Il cielo è grande, c’è posto per tutte le stelle, purché si riesca a distinguerle l’una dalle altre. Era imprevista come categoria dal mondo patriarcale, e così perfino i costituenti del secondo Dopoguerra, quelli che nell’articolo 29 della Costituzione più-bella-del-mondo (sic) non si erano affatto preoccupati di fissare un maschio e una femmina al centro della famiglia naturale (“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”).

 

[**Video_box_2**]Epperò oggi c’è, questa alternativa forte e chiara, potente e viva, culturalmente imprescindibile, emersa com’è dal regno ombroso della possibilità universale. Ha la sua sostanza ideale, una certa coesione d’intenti, un ritualismo, una martirologia. Insomma una religio nova (sed licita!). Scrivevo giusto un anno fa sul Foglio: “Una parte consistente, forse maggioritaria, del così detto mondo arcobaleno si autopercepisce suo malgrado come una setta discriminata, con i propri codici, le proprie liturgie, le proprie ricorrenze civili e festive, addirittura i propri martiri da ricordare e indicare come esempi. E siccome ogni manifestazione della vita ha per me qualcosa di sacro, nel suo ambivalente significato di venerando e terribile, avverto l’esigenza di porre sotto una protezione pubblica, oltreché trascendente (che poi le due sfere si sovrappongono fino all’identificazione), la questione omosessuale. E insomma, per fare un esempio forse inattuabile, se fossi sindaco di Roma incoraggerei l’istituzione di un sacerdozio apposito per celebrare le nozze gay, e per porle sotto l’amorevole tutela di una divinità (sceglietevela, ce ne sono così tante)”. Il problema sono gli etero, alcuni di loro per lo meno. Perché alla religione omosessualista gli etero sradicati aderiscono a modo loro, cioè sradicante, (auto)distruttivo. Ed ecco il genderismo dissolutorio, una malattia eterosessual-democratica che poi ammala chiunque vi si abbandoni. Una palude corrosiva nella quale lo stesso mondo omosessuale rischia di sciogliersi in una vampa grigia e desolatamente beffarda. Morta ammazzata dalla tracotanza dei Tersite contemporanei (Tersite: l’insolente fiacco odiatore dell’aristocrazia regale, etero fino a prova contraria, punito a dovere da Ulisse), pedagoghi di un pansessualismo nientificatore che più sessuofobico di così non si può, propalatori di un callido fanatismo dell’incompletezza, maestri cantori del senso di colpa nell’essere naturalmente sessuati e culturalmente stabili nel cerchio sacro di Amor, che non è l’amorazzo sensuale dei più ma il nume dell’attrazione universale tra poli opposti e complementari. Togli Amor, e avrai tolto il mondo. Ma provateci pure, lui troverà altre vie, e post umane.

 

Si dirà: dal tuo patriarcato non nascono fiori ma pugnali insanguinati. E’ l’urlaccio vagabondo e colpevolizzante del momento. Ma è anche la tesi ragionata della grande antichista Eva Cantarella – “Non sei più mio padre. Il conflitto tra genitori e figli nel mondo antico” (Feltrinelli) –, viziata però dalla sostanziale, forse voluta incomprensione del patrimonio simbolico-esoterico dei miti (ma anche dei logoi) greci e della mitistoria romana. Dietro il velame regicida della dinastia Urano-Crono-Giove palpita il mistero del cosmo uni-verso che prende forma spazio-temporale, ma conserva un ombelico nel quale immergersi per ritrovare l’hic et nunc originario… Ma non è questo il punto. Il punto è che quando occhi profani hanno sottratto luce al divino nel mondo non saranno nuove mappe cognitive genderiste o fideistiche larve pseudo patriarcali a restituire la giusta visione. Né può bastare il ritorno, in potenza abbrutente, a una non troppo nitida Wilderness (gli ormai attempati “Maschi selvatici” di Claudio Risè). Né potremo affidarci ai nuovi Ulisse di Massimo Recalcati, figure di una paternità incoraggiante ma ancora spenta perché troppo servile, lenitiva, lontana dalla Stella del Mattino. Urge Amor.

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