Jean-Baptiste II Lemoyne, “Vertumno e Pomona”, 1760

Il Dio elegante

Alessandro Giuli
L’arte di cambiare forma, identità e stati d’animo è il privilegio del divino Vertumno. L’uomo comune si accontenti del carnevale

DII BENE VORTANT!

 

A Carnevale, ogni Vertumno vale. Ma chi è Vertumno… e che cosa c’entra questo dio con i riti di travestimento e purificazione scenica caratteristici di febbraio? Premesso che per Vertumnus è sempre Carnevale, perché nella sua natura profonda risiede la causa d’ogni vertere, d’ogni trasfigurazione o travestimento, finalmente uno studioso contemporaneo s’avvicina al cuore della risposta. Stiamo parlando di Maurizio Bettini, uno dei filologi e saggisti più accreditati e prolifici del momento. Ha appena pubblicato con Einaudi un libro intitolato “Il dio elegante - Vertumno e la religione romana” (222 pagine, 24 euro). E’ una ricerca sofisticatissima, la sua, intorno alla più misteriosa e sfuggente divinità fra quelle conosciute, situata quasi al limite oltre il quale troneggiano i così detti dèi velati della tradizione etrusca (Vertumnus è deus Etruriae princeps). Il Vertumnus romano deriverebbe dal tirreno Velthe, o Veltune, sposo di Voltumna o Urcla, la dea titolare del Fanum Voltumnae, santuario nazionale ubicato a Bolsena (o forse a Orvieto, che però di questo centro federale sarebbe stato più che altro l’avamposto militare. Bettini lascia nell’indistinto la questione ancora dibattuta dagli etruscologi. Vedi Giovanni Feo, “Il tempio perduto degli Etruschi”, Effigi, Grosseto 2014).

 

Il lavoro di Bettini è un’inchiesta serrata sul “carattere vertumnico”, sulle qualità fondanti di un dio antichissimo raccontato in forma rapsodica dalla letteratura e dall’epigrafia latina, un nume dai troppi volti per essere ricondotto a un ritratto uniforme come quello tutto frutta-e-ortaggi dipinto nel 1591 da Giuseppe Arcimboldo. E Bettini muove da una celebre elegia di Properzio nella quale una statua del dio si presenta in modo ambiguo eppur sincero, obliquo e di-vertente, quasi dovesse esibire un documento d’identità (signum). Vertumno indica in Volsinii (Bolsena) la sua patria gentilizia, ma al tempo stesso rivendica la cittadinanza capitolina scelta quando abbandonò i focolari etruschi assediati, e quindi espugnati, dai legionari (c’è di mezzo una evocatio, rito bellico con il quale i generali romani costringevano le divinità dei nemici a parteggiare per l’Urbe in cambio di ospitalità e culto). Siamo in età repubblicana (ma siamo anche in età augustea, perché la statua ci parla attraverso i versi di Properzio). Eppure questa stessa statua ci svela di essere il simulacro d’un dio introdotto nell’Urbe già in età romulea quando i Romani, una volta superato un primo sbandamento grazie all’azione di Iuppiter Stator, il Giove che arresta e “fa stare” sul posto i legionari, volsero in fuga i Sabini guidati da Tito Tazio.

 

“Perché ti meravigli che in un sol corpo io abbia tante forme?”, interroga il dio, salvo poi indicarci alcune tracce per comprendere l’etimologia del suo nomen – da Vert-amnis, in quanto artefice della deviazione del Tevere che prosciugò il Velabro; da Vert-annus, in quanto titolare del mutarsi dell’anno da una stagione all’altra (quando festeggiate un anni-versario, sappiate che state omaggiando lui, Vertumno) salvo poi smentirsi da solo ma senza smentirsi fino in fondo, poiché l’ultima versione ricomprende a modo suo le precedenti: “La mia natura si adatta a tutti i sembianti”, ergo sono Vert-omnis, colui che “muta-in-tutto” in omaggio alla radice del suo nome: vart: volgere (ci torniamo più avanti). Scrive Bettini: “Il dio presenta dunque se stesso come signore della metamorfosi, capace di assumere ogni e qualsiasi forma”. Esempi? Nelle Metamorfosi di Ovidio, dopo vari tentativi “infruttuosi” il dio si traveste da vecchierella e convice la neghittosa Pomona a concedersi descrivendo Vertumno (cioè se medesimo) come amante fedele e costante. Ma è la statua di Properzio a dirci di più: Vertumno è fanciulla amabile se abbigliata con vesti di Cos, uomo adulto se in toga, falciatore se ornato di fieno e dotato di lama ricurva, e così via: soldato, mietitore, cacciatore, pescatore, acrobata, mercante, pastore, fioraio; perfino un altro dio come Bacco (“mettimi in testa una mitra…”) o Apollo (“se mi darai in mano un plettro”). Bettini non si lascia incantare e coglie un indizio profondo nel fatto che Vertumno non “impersona” mai individui specifici, piuttosto acquisisce ora questa ora quella personalità: “A Roma persona indica prima di tutto la ‘maschera’ indossata dall’attore [dall’etrusco Phersu: maschera ridente di un nume immortale, come insegnano i patres], l’artefatto, spesso elaborato, dietro il quale l’histrio cela la propria individualità per rendere esplicito qual è il ruolo che sta interpretando nella pièce teatrale. E si tratta sempre di ruoli generici, non individuali: le maschere teatrali antiche non rimandano a individui ma a tipi”. Nel mondo romano non esiste individualità slegata da un contesto di relazioni, da uno status gerarchico e da una funzione comunitaria e sociale: ogni vir è il tramite di un genio famigliare, quindi gentilizio e patrio via via che dilatiamo la visuale. (Qualcosa di simile era presente nella visione del mondo ellenica, laddove coloro che si sottraevano ai vincoli della polis, un po’ come i libertarians moderni, venivano chiamati con disprezzo idiotès, i “sé stanti”, gli avulsi). “Le trasformazioni di Vertumno – sintetizza Bettini – danno dunque vita a un mondo popolato di personae, non di individui, il suo segreto sta nel diventare ogni volta qualcun altro” E-versivo e derisorio alla maniera di Artur Rimbaud secondo il quale “Je est un autre”; “ma fino a un certo punto, arrestandosi prima di superare la soglia dell’individualità”.

 

Attenzione però: Vertumno non trascura l’io, lo uccide moltiplicandolo in forma seriale con-vertendo in continuazione le deliberazioni dell’animo. E allora entra in gioco Orazio, con una delle Saturae autodenigratorie nella quale la sua incostanza diventa bersaglio e pretesto narrativo. A parlare, incoraggiato dalla liberalità concessa in occasione delle feste Saturnali, è lo schiavo Dama il quale rimprovera al padrone-poeta di rendersi simile a un certo Prisco “nato con i Vertumni mal disposti, tanti quanti sono” (Vertumnis quotquot sunt natus iniquis). Il personaggio in questione alterna in modo schizoide lussi e rinunce, esibizioni sovrabbondanti di ricchezza o di elevazione sociale a discese nell’anonimato più sordido, inclinazioni alla seduzione a pretenziose ascesi filosofiche… insomma uno con troppi Vertumni nella testa perché, come riporta uno scoliasta oraziano citato da Bettini, “porta il nome di Vertumno il dio che presiede alle menti umane, da vertere. Questi fu venerato un tempo a Roma […]. Ha nome Vertumno il dio che presiede a come ci si sente, perché muta e trasforma i pensieri degli uomini”.

 

A questo punto Bettini spiega con arguzia il carattere molteplice del tratto vertumnico, e per razionalizzare l’esistenza romana dei così detti “dèi plurali” – come le Veneres di Catullo: forze numinose non circoscrivibili in una semplice individualità; e nemmeno in forma scultorea, a giudicare dalla statua di Vertumno – ricorre alla teoria dei frattali coniata da Benoît Mandelbrot, secondo la quale esistono oggetti che, nella propria struttura interna, si ripetono “in modo identico su scale diverse: in altre parole, un oggetto che, a diversi livelli di osservazione, presenta sempre gli stessi tratti o tratti molto vicini”. Esempi: l’abete, il broccolo romanesco, le insenature. In base a questo “principio di autosimilarità” – un po’ la versione moderna delle “omeomerie” individuate dal filosofo Anassagora di Clazomene, vissuto nel V secolo prima dell’èra volgare – “il dio si riproduce ‘a cascata’ in una serie di forme autosimilari, ciascuna definita da un epiteto, che per parte loro lo ripetono senza contraddirne l’unicità”. Bettini esemplifica plasticamente il concetto attraverso una scultura ottocentesca in legno da Rurutu, Polinesia francese, didascalizzando così: “In pratica si tratta di un dio fatto di molti dèi”. Ben scavato, anche perché la frase richiama alla memoria la chiosa apposta da Porfirio su un carme orfico d’intonazione panenteistica riprodotto nel suo libro “Sui simulacri” (Adelphi): “Giove è pertanto l’universo mondo, vivente fatto di viventi, dio fatto di dèi”. Ma Vertumno non ambisce a tanto, non a Roma per lo meno, magari in Etruria… Qui, dicevamo, si chiama Voltumno e compare accanto a Voltumna, cioè Vortumna-Fortuna, ovvero Northia, divinità del destino che con Fortuna ha in comune (se non l’essenza) la ruota del Fato. Ma guarda caso Bettini scova un altare di Treviri dedicato a Vertumno accanto al quale spuntano alcune dediche agli “Dèi Casi”, una di queste commissionata da un sortilegus o “manipolatore di sortes oracolari”. E se la ruota della Fortuna volge ora in su ora in giù (bene vertet o male vertet, come testimoniano gli Adelphoe di Terenzio), dovrà pur esserci un “volgitore” di ruota. E infatti esiste, fra gli hindu è detto Chakra-Vart-in: è il sovrano immoto, cardine della ruota, ministro dei cicli cosmici (così simili ai saecula etruschi!).

 

A Roma Vertumno si diletta anche come nume delle metamorfosi commerciali, stanziato nel Vicus Tuscus e cioè lì dove Plauto (Curculio) colloca i misteriosi “uomini che si vendono da soli, o quelli che si mutano o danno agli altri l’opportunità di mutarsi (ubi vortentur)”. E qui, in perfetto stile vertumnico, ognuno può cogliere quel che preferisce o gli si addice: dalla piromagia risalente alla Etrusca Disciplina (Vertumno da vortex-vorticare…) alla prostituzione (“ragazzi di vita”, allude Bettini), al travestitismo o cambio di genere. Sempre da queste parti è il Foro Holitorio, dove si commerciano frutti dell’orto, erbe e fiori… ecco la ragione essenziale, a quanto pare, della notorietà vertumnica, la sua predilezione, diciamo sempre con Properzio-Vertumno: “E perché dovrei aggiungere ciò per cui ho fama maggiore, / i doni degli orti che figurano nelle mie mani? / Mi contrassegna il verde cetriolo, la curcuma dal ventre rigonfio, / e il cavolo legato con giunco sottile. Né fiore sboccia nei prati / senza che, prima, languisca con eleganza sulla mia fronte”. Eppure non basta, la mercatura, poiché nella vis numenque di Vertumno dominano i fili invisibili dell’ulteriorità.

 

[**Video_box_2**]Veniamo al dunque, adesso. Il dunque sta nei sei versi conclusivi dell’elegia di Properzio, lì dove Vertumno dice: “Prima di Numa ero un tronco d’acero, sgrossato in fretta / con la falce, dio povero in una grata città. / Ma a te, Mamurio, cesellatore del mio bronzeo sembiante, / possa l’Osca terra non consumare le mani di artista, / tu che a tanti e flessibili usi hai saputo dispormi. L’opera è una sola, / ma all’opera non un’unica lode si conferisce”. Bettini dedica a questo epilogo le pagine più intense del suo studio, colme di rimandi simbolici e filologici. La statua del dio – suggerisce l’autore – sta ringraziando il mitistorico mago-artista che in età numana riprodusse in undici copie lo scudo sacro (ancile) inviato da Giove come pegno dell’imperio romano. E’ grazie al suo lavoro di martello e di bulino che la statua lignea, rivestita di lamine bronzee ben cesellate, può di volta in volta assumere fattezze e identità differenti a seconda che sia abbigliata con questo o quel vestito (sì, nel mondo antico i simulacri erano luminosi, colorati e rivestiti d’abiti). Sta in ciò la sua eleganza? Sì e no (risposta vertumnica). Mamurio Veturio viene mitizzato come un artista la cui eccessiva destrezza suscita un risentimento divino culminante nella sua “bastonatura” e “cacciata” dalla città, in una forma codificata nel calendario romuleo e ritualizzata in forma carnascialesca nella celebrazione dei Mamuralia (14-15 marzo: Capodanno sacro). Secondo alcuni da qui proviene il sacrificio cruento dell’anno vecchio per aprire la via a quello entrante, Bettini si limita a indicare due noti mosaici calendariali che nel mese di marzo raffigurano i giovani Salii intenti a battere una pelle caprina; suggeriamo a Bettini d’indagare sul carnevale di S’Urtzu e Sos Bardianos di Ulà Tirso, in Sardegna (qui li abbiamo da poco ammirati accanto al Dioniso-Diavolo di Tufara, nel Sannio), che ricalcherebbe il rito di Mamurio come i Mamuthones proseguono oggi la danza dei Salii (l’amptruare, teste Giovanni Colonna). Mamurio è “lo stilista” non divino che paga dazio (simbolico), Vertumno è il beneficiario della sua arte: il decoro del vorticante nume che presiede ai cambi di stato, forma, e identità, non viene intaccato dalla sua continua metamorfosi, che anzi ne costituisce l’essenza, l’eleganza (decorum) appunto. Ma questo non può valere per un uomo, a meno che aspiri a farsi nume vertumnico, impresa legittima quanto ardua. Un vir, insegna Cicerone, ha il dovere (officium) di conoscere la propria natura e diventarne la maschera. Pena l’ineleganza, delitto contro il decorum. Così in una Roma ancora lontana dall’attuale ipertrofia dell’ego e dalla superbia brutale degli incostanti che si credono tutti-di-un-pezzo e invece, agiti dall’esterno, posseduti come il Prisco di Orazio, sono solo trasformisti: vittime profane di un carnevale permanente.

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