Le masse scavalcano le istituzioni tradizionali, si organizzano, fanno da sé. Il problema è che per ora faticano a cavarsela

Addio popolo

Eugenio Cau
Le élite perdono la loro influenza nell’èra della disintermediazione. Montano i populismi e le dietrologie. Una questione di sfiducia. Google ha cercato di diffondere la Knowledge-based trust, fiducia basata sulla conoscenza, termine da dialogo socratico.

Google ha annunciato di aver scoperto l’algoritmo della fiducia all’inizio del 2015, circa un anno fa. Stanchi della spazzatura che circolava liberamente sul loro motore di ricerca, e che anzi più era condivisa più era messa in evidenza dagli algoritmi, alcuni ingegneri di Mountain View hanno deciso che non dovevano essere più i link, come da tradizione, a decretare il successo di una pagina web, ma la Verità, quella con la maiuscola, quella matematicamente verificabile. Teorie del complotto, spam, disinformazione variamente motivata, pseudoscienza: il nuovo algoritmo avrebbe spinto tutto ai margini del web, introvabile, o almeno meno trovabile della Verità, perché va bene la libertà di parola, ma meglio che sia temperata. Gli ingegneri di Google pubblicarono un paper ben farcito di formule e ipotesi di lavoro e dimostrazioni su larga scala e prepararono tutti alla rivoluzione del Kbt, Knowledge-based trust, la fiducia basata sulla conoscenza – meraviglioso termine da dialogo socratico applicato alle interconnessioni del Ventunesimo secolo. Da principio la notizia interessò soprattutto gli addetti ai lavori e i gestori dei siti internet, perché l’algoritmo di Google è un’alchimia delicata che muove miliardi di dollari, e ogni modifica dei suoi parametri può innalzare o distruggere. Poi anche loro iniziarono a dimenticarsi di quel paper. E’ passato un anno e l’algoritmo della fiducia, se mai è stato messo in pratica, non ha prodotto gli effetti sperati. La rete è più prolifica che mai di spazzatura di vario genere, i canali per la sua diffusione si sono moltiplicati anziché ridursi, la mistificazione è una normalità ineludibile con cui tutti gli utenti hanno imparato da anni a fare i conti. Non ci si può fidare del tutto di internet, né dei media tradizionali, che prendono a piene mani da internet, né delle istituzioni, perché si informano sui media che prendono da internet. Lo stato della fiducia – nelle istituzioni, nei media, negli enti non governativi – è in crisi da sempre. Ma quest’anno Edelman, agenzia di relazioni pubbliche e comunicazione che tutti gli anni cerca di misurare quanta fiducia c’è nel mondo, pensa di aver scorto delle novità. Ogni gennaio Edelman pubblica il suo Trust Barometer, un rapporto sulla fiducia che si inserisce nel gran carosello di studi, ricerche, paper pubblicati e pubblicizzati subito prima del World Economic Forum che si conclude oggi a Davos. Molti di questi lavori possono essere facilmente scartati. Ma dal report Edelman è possibile desumere una conclusione interessante, seppure non esplicita nello studio: anche la fiducia è diventata vittima di quel processo di disintermediazione che ha investito diversi settori industriali, i trasporti, i media.

 

Trasformare la fiducia in una quantità misurabile è un lavoro complesso. Prima di quantificare la fiducia bisogna definirla, poi ideare dei parametri che consentano di trasformare un’idea in un numero. Nel suo Trust Barometer annuale, Edelman usa un metodo quantitativo. Quest’anno ha intervistato circa 33 mila persone in 28 paesi del mondo e ha chiesto loro di definire il proprio livello di fiducia nelle istituzioni (gruppo che comprende i governi, il business, i media e le ong). Il risultato generale è che la fiducia complessiva nel mondo è leggermente aumentata rispetto all’anno precedente; ma andando a scavare nei dati si notano più elementi di preoccupazione che in passato. Il report, uscito per la prima volta nel 2012, divide i mondo in due gruppi: da un lato una élite composta dal 15 per cento della popolazione tra i 25 e i 64 anni, che ha un alto consumo di mezzi d’informazione e fa parte del 25 per cento di popolazione più ricco di ciascun paese; dall’altro il restante 85 per cento della popolazione. L’aumento della fiducia registrato da Edelman, di pochi punti percentuali sull’anno scorso, si realizza soltanto grazie all’élite, che confida nelle istituzioni in proporzione molto maggiore rispetto al resto della popolazione. E qui arriva il dato più interessante di tutto il rapporto: la differenza tra la fiducia delle élite nelle istituzioni, tendenzialmente alta, e quella delle masse, tendenzialmente bassa, non è mai stata così ampia. Il 60 per cento dell’élite informata si fida delle istituzioni contro il 48 per cento delle masse. “Si nota una perdita d’influenza delle élite”, dice al Foglio Fiorella Passoni, amministratore delegato di Edelman Italia. “Basti pensare al fatto che una buona percentuale della ‘general population’ non riesce a menzionare un ceo di un’azienda, nemmeno famosa, e dunque in un certo senso l’élite è intesa più come un nome generico che come una persona con un’identità specifica”.

 

 

Quando si declina il dato sui vari paesi la differenza è ancora più netta: le popolazioni e le élite non concordano più, e il dato nazionale assume una connotazione prettamente politica. Gli stati in cui la sfiducia è ai livelli più alti, e in cui il divario tra élite e masse è maggiore, corrispondono in modo quasi perfetto alla geopolitica del populismo che si è creata in occidente negli ultimi anni. I primi quattro paesi in cui il distacco è cresciuto maggiormente sono Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Spagna, che corrispondono alle patrie di Marine Le Pen e dei suoi straordinari successi alle ultime elezioni, di Nigel Farage e del populismo euroscettico, di Donald Trump e Ted Cruz, di Podemos e dello sgangherato indipendentismo catalano. Al contrario l’Italia è tra i pochi paesi in cui questo divario, paradossalmente, diminuisce di poco – e se la correlazione (che, ricordiamo, non è una prova) tra fiducia e populismi si dimostrasse valida, di certo non depone a favore del Movimento 5 stelle.

 

Il dato sociale, invece, è la disintermediazione. Il rapporto tra le élite e le masse si sta in un certo senso disgregando, e queste ultime scavalcano le istituzioni tradizionali, si organizzano, fanno da sé. Le istituzioni e i media perdono centralità. Uno dei dati più ripresi del report Edelman riguarda il fatto che i motori di ricerca sono considerati più affidabili dei media tradizionali. Ma i motori di ricerca sono degli aggregatori, non dei produttori di contenuti. Questo significa che la stessa notizia, magari lo stesso testo, è considerata più credibile se letta su Google News piuttosto che tra le pagine di un quotidiano. “In quasi tutto il mondo la fonte numero uno per ottenere informazioni sono i motori di ricerca”, ribadisce Passoni, ma non solo: “Il generatore di contenuti considerato più attendibile è la ‘peer to peer communication’, dunque in buona parte i social media. I social media sono una fonte che produce informazione”, e che è considerata più affidabile di qualunque giornale, telegiornale, dichiarazione politica.
Sta tutto qui il cuore del grande scollamento, o meglio della grande disintermediazione, che è doppio, perché riguarda sia il divario tra le élite e le masse, sia quello tra le masse e la realtà. I rischi di un mondo disintermediato sono macroscopici – non tutto è come Uber e i tassisti. L’informazione, che si è sempre nutrita di un rapporto privilegiato e simbiotico con le élite, perde valore, le istituzioni non hanno più autorevolezza, la politica e i leader sono screditati. Le opportunità sono altrettanto grandi – vedi Uber e i tassisti, e infatti Passoni le identifica soprattutto in una fiducia nel business che, in netta controtendenza, è in aumento in tutta Europa.

 

Il problema è che per ora le masse, quando si trovano a fare da sole, faticano a cavarsela. Il pericolo di una maggioranza che non si fida delle istituzioni e delle élite e prende le sue decisioni sulla base di meccanismi puramente autoreferenziali e sempre più chiusi è già accennato nel report di Edelman. Lo esplicita con i numeri uno studio recente pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) da un team di studiosi di varie università e guidato dall’italiana Michela del Vicario dell’Imt di Lucca. Lo studio è intitolato “La diffusione della disinformaziona su internet”, è stato reso piuttosto celebre da un articolo del magazine americano Bloomberg (a firma di Cass R. Sunstein; è stato tradotto in italiano dal Post) ed è stato citato come prova del fatto che su internet le persone si muovono entro circoli ristretti di amici e sodali che la pensano come loro, rafforzano gli uni le opinioni degli altri e rendono difficile cambiare idea. Ma prima ancora di questo lo studio è un affresco interessante della diffusione della conoscenza in un mondo disintermediato. E’ questo l’elemento centrale del paper, citato fin dalle prime righe: “Questo ambiente disintermediato (internet, ndr) può provocare confusione sui rapporti di causalità e incoraggiare speculazioni, dicerie e sfiducia”. Studiando attraverso dei modelli matematici le modalità di diffusione online di notizie scientifiche rigorose da un lato e di marchiana disinformazione dall’altro, gli scienziati hanno osservato come funzionano i meccanismi di disintermediazione della verità, e dunque della fiducia. Il risultato non è incoraggiante: “Il fatto che una notizia, dotata o meno di fondamento, sia considerata come vera da un utente può dipendere in maniera profonda dalle norme sociali o da quanto questa sia in linea con il sistema di credenze dell’utente”. In un mondo disintermediato, almeno nel mondo disintermediato di internet, la verità è più relativa che mai, e la fiducia fortemente sopravvalutata. E le soluzioni, si legge nel paper, non possono essere di natura algoritmica. Non serve a niente aggrapparsi a strumenti meccanici che enfatizzino la verità sulla menzogna. Il problema è l’“omogeneità sociale”, riguarda i rapporti tra gruppi chiusi di persone. E’ qui che i rapporti tra la massa e una élite più informata sarebbero fondamentali, è così che i vecchi canali di trasmissione della fiducia, di apertura verso l’esterno dovrebbero funzionare: in un certo senso, il lavoro dei media è sempre stato cercare di spezzare i gruppi di opinione chiusi per creare conoscenze nuove. Ma nel mondo della disintermediazione la fiducia è esternalizzata, non più affidata alle élite e alle istituzioni e trasformata in materiale malleabile che chiunque può maneggiare a proprio piacimento. E’ un’opportunità grandiosa ma difficilissima da mettere in pratica. Per ora, ha generato soprattutto teorie del complotto.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.