Intorno alla salma di Valeria Solesin, il cerchio della nazione s’è stretto unanime in pochi attimi per poi spezzarsi nuovamente, e contendersi le sue spoglie

La civiltà del lutto

Alessandro Giuli
Perché gli italiani preferiscono il vittimismo di un funerale di Stato alla verità della parola guerra, che resta impronunciabile, perché sottende un’aggettivazione: santa, giusta e pia, profana, empia e ingiusta

“La guerra che noi combatteremo, sarà guerra del nostro risorgimento, quindi non già dall’epoca della nostra decadenza dobbiamo cercare l’ispirazione, ma bensì da quella della nostra grandezza” (Carlo Pisacane, dall’e-book “Dell’elmo di Scipio” di Sandro Consolato, flower-ed 2012)

 

L’Italia è una Repubblica fondata sul lutto, ma guai a interrogarla sulle sue origini. L’Italia contemporanea, diafana controfigura de “l’antiquo valore [che] ne l’italici cor non è ancor morto” (Petrarca), sembra ritrovare se stessa più che altrove nel cordoglio, nella commemorazione, nel pianto rituale e nella solennizzazione delle proprie vittime. Gli italiani si scoprono uniti dalla morte, ma appena si esca dall’effetto letale per risalire alla sua causa, ecco che si separano di nuovo. Se poi c’è di mezzo la guerra, una guerra simmetrica o no, riconosciuta o meno che sia, il corteggio dell’ipocrisia si sfalda immediatamente. Valeria Solesin era una ragazza bellissima, con qualcosa di famigliare a ognuno di noi, una dolcezza così italiana nello sguardo, una determinazione rocciosamente femminile, l’inclinazione all’umanitarismo, il desiderio di libertà, la lontananza da patrie, religioni, fanatismi. La notizia della sua uccisione a Parigi per mano islamista, il 13 novembre scorso, nel teatro-disco Bataclan, ci ha colto al dettaglio, alla spicciolata, frammentati, ma ciascuno di noi era appeso al proprio filo invisibile che collega con il genio della nazione, come un telegrafo senza fili che genera e sincronizza le nostre risonanze interiori ogni qual volta una sciagura, un attentato, un giro maligno nella ruota della sorte al di fuori dei confini esige il sacrificio di una o più anime italiane. La prima domanda che ci facciamo, il primo interrogativo da sfamare nella fantasmagoria delle cattive notizie tambureggiate dai mezzi d’informazione, è: ci sono italiani? A quel punto scocca una reazione istintuale, un meccanismo d’identificazione comune, l’abitudine certo, una genuina spontaneità con qualche tratto d’orgoglio. I social network amplificano i segnali di fumo, inducono ad agglutinare lo sgomento in forme condivise, siamo tutti Charlie, siamo tutti Paris, siamo tutti Valeria… Ovvero?

 

Non devo scomodare l’antropologia o la psicanalisi (figuriamoci) per sostenere che c’è sempre un che di consolatorio e risolutivo nel funeralizzare un morto, un caduto, una morte acerba sopra tutte. Il momento dell’orazione funebre e la consolatio vengono vissuti come gesti letterari, generi di conforto appunto, accompagnati dal corredo di prefiche e preghiere non importa quali. Come in ogni rito, nel funus si sviluppa un magnetismo potente paragonabile alla forza sprigionata da una pila di Volta: un polo attivo (il celebrante), un polo passivo (i parenti della vittima, i vicini, i sodali, chiunque presente o meno converga nel lutto con l’emotività e il pensiero) e un mediatore plastico rappresentato dalla salma che mette in collegamento gli estremi e dinamizza il circuito. E’ così fin dai tempi mitistorici in cui il furioso Achille, davanti ai suoi Mirmidoni silenziosi, sgozzava prigionieri troiani sul tumulo appena eretto per il cadavere di Patroclo. Spenta la pira funebre, arsi i residui umani, resta il sepolcro con un segnacolo accanto, se va bene un busto e il nome di una via o l’epigrafe ossidata su un monumento collegiale nei casi estremi, come il canto di Simonide ai caduti delle Termopili di cui “la sorte è gloriosa, bello il destino e un altare è la tomba, al posto dei gemiti il ricordo, e il compianto è lode”; come i bronzi per i caduti in ogni piazza comunale che si rispetti. Ma quelli erano, sono, caduti di guerra e oggi la parola guerra è impronunciabile, perché sottende un’aggettivazione scomoda: guerra santa, giusta e pia, profana, empia e ingiusta… oppure, se non altro, una specificazione: guerra di civiltà, di liberazione…

 

E così, intorno alla salma di Valeria Solesin, il cerchio della nazione s’è stretto unanime in pochi attimi per poi spezzarsi nuovamente, e contendersi le sue spoglie – ma in una versione sconsacrata – come fanno gli avvoltoi sulle Torri del Silenzio zoroastriane, le impalcature su cui vengono deposti i trapassati ritenuti inavvicinabili dalla terra e dal fuoco. Chi l’ha voluta storicizzare, Valeria S., come un santino laico, chi ha biasimato l’assenza di simboli cristiani, chi s’è fatto bastare l’Inno alla gioia e la triplice presenza di un rabbino, un patriarca e un imam, chi ha cercato di farne un simbolo con il quale l’italiano di concetto e di buona morale come Valeria S. avrebbe grazie a lei “esorcizzato il senso di colpa che proviamo verso i ragazzi della sua età” (Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera), chi gli ha risposto con un quesito perforante: “E se invece fosse stata una stronza? Una ignorante? Una turista trasandata e sbevazzata? Non combatteremmo per lei, per il suo diritto di vivere?”. Bella questione, e tutt’altro che liberatoria, che per un attimo ne illumina una ulteriore: ci hanno fatto vedere come muore un’italiana perbene, ma Valeria S. è una vittima collaterale del terrore o un bersaglio di guerra scelto con meticolosa volontà di sterminio da parte di un’orda islamista fanatizzata da uno Stato canaglia, un mostro edificato sulla coscienza infelice dell’occidente e amministrato dalla scimitarra del califfo dei tempi ultimi?

 

Ci sono poi vittime civili e vittime meno civili, cioè militari. Per esempio i nostri diciannove soldati caduti a Nassiriya, in Iraq, il 12 novembre 2003, sui quali sventola ancora il tricolore dell’imbarazzo: hanno ottenuto un funerale di Stato, il compassionevole saluto dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, al Vittoriano, l’intitolazione di una sala alla Camera dei deputati e una miniserie in tivù in due episodi. Erano invasori al servizio dell’imperialismo statunitense in Mesopotamia? Portatori di civiltà? Vindici dell’attacco globale qaidista contro l’occidente? Meglio non pensarci, meglio evocare, se proprio ci tenete, la coesione funeraria nazionale manifestata a cadaveri ancora caldi, il lamento condiviso… hai visto mai che poi uno di loro, uno dei morti, si riaffaccia dall’aldilà per fastidiarvi puntando l’indice nella vostra fronte: vi piace restare accoccolati sul letto di morte assegnato alle vittime perché in fondo al cuore sentite di dover espiare un passato di carnefici che proietta la sua ombra fin sul presente… il fascismo, l’impero coloniale, il militarismo americanomorfo, poi chissà che altro.

 

E’ la stessa ambiguità su cui traballava la ridda di notizie sulla guerra guerreggiata dei nostri militari in Afghanistan, lì dove l’essenziale era gridare forte “peace keeping” e “peace enforcing” pur di sovrastare il crepitio delle pallottole che però se ne fottono delle etichette e uccidono senza distinzioni di razza, sesso e religione, e alla faccia di qualunque inibizione costituzionale (ex art. 11) nel proclamarsi in guerra. Eppure cinquantatré cadaveri, di cui trentuno accoppati in azioni ostili, sono sempre lì a ricordarci che “quando si muore si muore soli” ed “è tutta colpa di chi muore”, come cantava Fabrizio De André.

 

Ci sono poi vittime né civili né militari, sospese nel limbo dell’indecidibile. Nel caso di Fabrizio Quattrocchi nemmeno il lutto privato poté amalgamare un minimo sindacale di concordia pubblica. Io nel 2004 c’ero, ai suoi funerali genovesi, e mi ricordo benissimo l’assenza dello Stato, la diffidenza o il disprezzo perfino di chi lo considerò carne mercenaria per bestie del deserto. Peccato per loro che anche i mercenari italiani sanno morire da eroi, così come i nostri soldati sanno soffrire da italiani – cioè in silenzio e con la dignità di uomini lontani nel tempo. Che poi Quattrocchi era un bodyguard ucciso in Iraq con un colpo in testa sparato da un branco di macabri tagliagole islamisti (il 14 aprile 2004). E’ l’uomo che ha dichiarato al mondo “come muore un italiano”, l’ex riservista di fanteria che ha lasciato la panetteria di famiglia (causa allergia) ed è finito a sorvegliare il disordine iracheno per guadagnarsi la mesata necessaria a sposare la sua fidanzata Alice. Morto da ardito senza aver cercato la bella morte e lasciandosi alle spalle una vita di eroismo incognito ai più. Di lui sono rimasti una bara, un mucchietto d’ossa e un paio di Ray Ban. Nel cimitero di Staglieno, amici e famigliari gli hanno eretto una copia della Nike di Samotracia, la statua che ricorda la vittoria della coalizione romano-ellenica contro il tiranno di Siria Antioco III (primo decennio del II secolo avanti l’èra volgare). I simboli contano più di quanto si creda. E lo Stato che ha fatto? Ci ha messo un po’ di tempo a capire, e quasi due anni per conferirgli la medaglia d’oro al valore civile. Funerale di Stato postumo?

 

[**Video_box_2**]L’altro giorno il direttore del Foglio lamentava la “straordinaria ipocrisia italiana che forse solo un Clint Eastwood potrebbe aiutarci a risolvere”. Secondo lui “ci vorrebbe un American Sniper, o meglio, un Italian Sniper, in Italia, ovvero un cecchino spietato e specializzato nell’interpretare in modo perfetto il senso moderno della guerra (per portare la pace a volte l’unico modo è portare la guerra)… non solo per rendere onore a un grande esercito come il nostro ma anche per affermare una volta per tutte un principio che invece viene strozzato da un politicamente corretto che ci porta a fare la guerra senza dirlo. Che ci porta a trascinare fuori dai nostri confini migliaia di militari culturalmente disarmati. Che ci porta a considerare legittimo l’uso della forza militare solo se la forza militare non fa uso della forza. Che ci porta a considerare giusta una guerra solo se la si combatte senza esagerare”. Vaste programme, ma è chiaro che ha ragione. Non voglio fare sfoggio di bellicismo, non è il momento e manca il materiale umano. Matteo Renzi ci dice piano con la parola guerra, ma se i fatti di Parigi fossero avvenuti a Roma? Presumo che avremmo visto il premier in tivù con lo scolapasta in testa, pronto a passare in rassegna le nostre inesistenti quadrate legioni. E avremmo avuto la tentazione di dirgli: ma tua madre lo sa che stai giocando a fare la guerra? Però come dare torto a chi ci dice: se non siete disposti a fare la guerra non sarete mai in grado di ottenere una buona pace. Italian Sniper, dunque? L’ultimo film patriottico credibile che mi viene in mente è (chiudete gli occhi) “Scipione l’Africano” di Carmine Gallone, anno 1937, musiche di Ildebrando Pizzetti, Coppa Mussolini alla Quinta Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia; film poi (riaprite gli occhi) comprensibilmente parodiato nel 1971 da Luigi Magni con “Scipione detto anche l’Africano”. E prima di allora c’era stato “Tutti a casa” di Luigi Comencini (1960) e “La grande guerra” di Mario Monicelli (1959): monumenti d’inarrivabile qualità artistica e autoflagellazione culturale, scritti con l’inchiostro antipatico verso ogni residuo di antica virtù, capovolgimento sostanziale dei così detti exempla maiorum sui quali si fondava l’educazione della coscienza nazionale pre fascista. Se educhi la tua gente alla viltà naturale, riscattata appena e quasi per sbaglio da un indelebile Alberto Sordi (l’Oreste Jacovacci monicelliano), ti resta poco alla fine su cui lavorare. E finisce che i 150 anni dell’Unità d’Italia diventano un palchetto per secessionisti immaginari e borbonici inconsolabili, sanfedisti dell’ultim’ora e aspiranti zuavi; finisce che per l’anniversario della Grande Guerra il Parlamento approva una legge per riabilitare i disertori: neppure un voto contrario, tutti i rappresentanti del popolo sovrano schierati con la diserzione. Logico che qualcuno finisca per cercare un modello oltre i confini, in America o negli ultimi lacerti europei di grandeur e british rule.

 

Se l’anima dell’Italia parlasse, se ci fossero orecchie degne e capaci d’ascoltarla, forse direbbe: avete cercato di espellere Marte dal vostro orizzonte, vi siete fatti carnefici non dei vostri istinti e della vostra natura, ma della vostra storia, avete delegato altri, i vincitori di ieri dopo gli invasori dell’altroieri (dalla tarda antichità in poi, grosso modo), a custodire confini e ragioni di un’apparente inviolabilità statuale e privata, ora che vi aspettate? Godetevi i vostri funerali. Finché non rinascerete seguendo l’antiquo valore.