Il Papa aveva invitato i vescovi a farsi portavoce della “verità del Vangelo con la stessa trasparenza dei bambini”, a parlare in modo franco. Il miglior interprete del nuovo corso è monsignor Nunzio

Le lamentazioni

Matteo Matzuzzi
Guida al nuovo linguaggio della chiesa. Dalla politica alla preghiera degli alpini, il perbenismo di vescovi e parroci somiglia sempre più al mesto canto di Geremia. “Oggi le convinzioni delle persone sono molto diverse e vanno rispettate”, dice il vescovo di Vittorio Veneto, mons. Pizziolo

Bruno Fasani, che di mestiere fa il direttore della rivista L’Alpino ma prima di tutto è un monsignore di Santa romana chiesa, è sbottato: “Qui si tratta di qualche prete talmente pacifista da permettersi di litigare solo con gli alpini, noti guerrafondai come ognuno ben sa”. Il fattaccio è quello che ha scombussolato la diocesi di Vittorio Veneto, simbolo supremo della guerra del Piave, dei fanti e delle battaglie sull’Ortigara: un parroco, un padre servita “arrivato da poco in diocesi”, come ha subito precisato il vescovo Corrado Pizziolo, ha proibito che in chiesa fosse recitata la preghiera dell’alpino. Troppo bellicosa in qualche sua parte, troppo poco politically correct, soprattutto quando si parla di armi e si auspica la difesa della millenaria patria cristiana. Roba da crociata inadeguata ai tempi correnti. Al limite, aveva chiarito il pievano, don Francesco Rigobello, lì sul San Boldo, si sarebbe potuto dare qualche colpo di bianchetto, togliere le parolacce inopportune per lo spirito del tempo attuale (schizzinoso e assai perbenista) e far recitare la preghiera edulcorata. In pratica, come se ai francesi chiedessero di rendere più soave la Marsigliese. Gli alpini, che il vescovo ha bollato come uomini “senza buon senso” – anche se poi, quando c’è da tirar su tende improvvisate dopo qualche calamità naturale, sono sempre in prima fila – se ne sono andati. Prima della benedizione e dell’ite missa est pronunciato dal servita che anni fa passò alle cronache per aver negato – sussurrano coloro che all’epoca erano presenti – l’esistenza dell’Inferno durante un’omelia tenuta in una chiesa milanese. Subito si è aperta la gara a fare l’esegesi del testo incriminato: è stato composto da colui che comandò il blocco in una grotta di migliaia di etiopi nel 1939, s’è scritto. Insomma, visto il curriculum vitae del “poeta”, Gennaro Sora, è più che opportuno fare una bella damnatio memoriae e cancellare la preghiera dalla storia alpina – per lo stesso ragionamento, però, si dovrebbero allora radere al suolo i cimiteri costruiti fuori dai centri abitati, ché così li volle Napoleone, non certo un filantropo hippie o un pasciuto cluniacense incapace di maneggiare un’arma.

 

Ma il vescovo di Vittorio Veneto, che giura su tutto il giurabile di non aver mai ordinato la censura del testo discusso, chiede un aggiornamento, un tavolo di confronto, un negoziato con le penne nere: “Oggi le convinzioni delle persone sono molto diverse e vanno rispettate”, ha detto monsignor Pizziolo. Chissà che si dirà dalla curia quando qualche gruppo di fedeli, magari di vecchiette habitué della messa domenicale, chiederanno al parroco di turno di modificare le pagine dell’Antico Testamento che traboccano di stragi, stupri, piaghe apocalittiche. Inimmaginabile, poi, cosa potrebbe accadere se qualche fanciullo – magari al catechismo – avesse sciaguratamente modo di soffermarsi su Geremia 16:4: “La parola del Signore a proposito dei bambini nati in questa terra: ‘Moriranno di malattie strazianti, non saranno rimpianti né sepolti, ma saranno come letame sulla terra. Periranno di spada e di fame; i loro cadaveri saranno pasto degli uccelli dell’aria e delle bestie della terra’”.

 

Bepi De Marzi, ottantenne cantore delle montagne, che pure qualcosa su quel testo avrebbe da ridire – “credo che gli alpini potrebbero accettare una revisione, anche per la frase ‘contro chiunque minacci la nostra patria’” – s’è visto censurare in chiesa anche la sua opera più bella, la preghiera “Signore delle cime”. Non c’è coro a nord del Po che prima o poi abbia intonato a cappella quei versi che sublimano il legame dell’alpino con la sua montagna: “Dio del cielo, Signore delle cime, un nostro amico hai chiesto alla montagna. Ma ti preghiamo, su nel Paradiso lascialo andare per le tue montagne”. Concetti evidentemente troppo hard per il parroco di Chiampo, profondo vicentino, che ne ha vietato l’esecuzione al funerale di un corista del paese. “Mi chiedo ancora cosa abbia di sconveniente quel testo”, ha detto De Marzi al Corriere del Veneto qualche giorno fa. Ma il sacerdote è stato irremovibile: quella roba non s’ha da fare. Peccato che poi, in quelle stesse chiese, si glorifichi l’Altissimo cantando – a cappella o con l’accompagnamento di organo, chitarre, tamburi e maracas – mottetti del tipo “Apri la tua bocca, la voglio riempire”, oppure “Dio s’è fatto come noi per farci come lui”. Quale sia il significato recondito di siffatti versi, non è dato sapere. Quel che si sa è che “Signore delle cime” non è bene accetto. De Marzi vede nella chiesa un certo “disordine mentale”, e neanche vuol sapere cosa abbiano cantato al funerale del povero corista che voleva essere accompagnato “su nel Paradiso” dalla “Signora della neve”: “Spero solo non abbiano intonato ‘Santa Maria del Cammino’, perché è una offesa alla Madonna, con quelle parole orrende”.

 

E’ uno stile che, tra le gerarchie ecclesiastiche occidentali con greggi sempre più ridotti da custodire, sta prendendo piede: sposare il conformismo che spesso sfocia nella più pura ipocrisia. Altro che far proprio l’invito papale alla parresia, al parlar franco. Si evita tutto ciò che possa essere recepito come scomodo, come non in linea con le mutate sensibilità del tempo in cui viviamo. Certo, che non sia più l’epoca di Lepanto nessuno (o quasi) lo discute, ma che qualche ufficio di curia potesse alzare il sopracciglio sulla necessità di “difendere la nostra millenaria civiltà cristiana” era fino a qualche tempo fa impensabile.

 

Nell’epoca in cui si oppone alla macelleria del califfo il mantra del dialogo a tutti i costi, sconfessando perfino dottrine sulla guerra giusta che la chiesa mai ha negato, può capitare perfino che il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, mons. Nunzio Galantino, sostenga che bisogna vedere “se quel nostro concetto di democrazia coincide con le aspirazioni locali”. Quanta differenza con il pianto delle comunità cristiane piagate e costrette all’esodo dalla calata degli sgherri califfali. Preti senza più fedeli (scappati o ammazzati) che vedono saltare in aria le chiese, vescovi che parlano di genocidio in corso e accusano la comunità internazionale di non muovere un dito per fermare l’orda nera. Da Qamishli a Erbil, da Baghdad ad Aleppo, ogni giorno arrivano racconti di persecuzione in cui l’elemento religioso è centrale. Piaccia o meno all’intellighenzia europea. Il patriarca caldeo di Babilonia, mar Louis Raphael I Sako, ha accusato l’ayatollah al Sistani – la massima autorità sciita irachena – di non aver speso una parola contro le atrocità commesse dallo Stato islamico: “Gli ho chiesto di parlarne pubblicamente, di pubblicare una fatwa. Mi ha risposto: ‘Non mi ascolteranno, come i cristiani non ascoltano il Papa’”. Il problema, chiariva ancora Sako, è che “tutti i musulmani dicono che l’Isis non rappresenta l’islam, che il Fronte al Nusra non rappresenta l’islam, che al Qaida non rappresenta l’islam. Ed è vero, chiaramente. Ma queste ideologie perpetrano i loro crimini nel nome dell’islam e della sua purezza”. Poi si arriva da questa parte del Mediterraneo e si nega tutto, si minimizza, perché chiamare le cose con il loro nome rischia di creare scandalo, di apparire becero o estraneo alla cultura pacifista che tanto va di moda. Sui barconi dei disperati che tentano di arrivare in Europa per rifarsi una vita ci si può scannare, come accaduto lo scorso aprile: cristiani gettati vivi in mare dai compagni di traversata musulmani. Subito arrivò il monito di mons. Galantino contro quanti erano già pronti alla strumentalizzazione. Le risse, disse il presule, possono capitare per “motivi imprevedibili”. Dopotutto, quando “ci sono persone stipate per giorni nei barconi in condizioni precarie” non si sa mai come può andare a finire. La religione, insomma, non c’entrava nulla. Qualche giorno dopo era il Papa a sgombrare il campo dalle ipocrisie, dicendo nell’omelia mattutina di Santa Marta: “Quanti ‘Stefani’ ci sono nel mondo! Pensiamo ai nostri fratelli sgozzati sulla spiaggia della Libia; pensiamo a quel ragazzino bruciato vivo dai compagni perché cristiano; pensiamo a quei migranti che in alto mare sono buttati in mare dagli altri, perché cristiani; pensiamo a quegli etiopi, assassinati perché cristiani, e tanti altri. Tanti altri che noi non sappiamo, che soffrono nelle carceri, perché cristiani”.

 

Eppure, a sentire il vescovo di Mazara del Vallo, mons. Domenico Mogavero, avvezzo al commento quotidiano dei grandi fatti di attualità, “dobbiamo mettere da parte angoscia distruttiva e fandonie della guerra santa. Non c’è alcun pericolo rispetto alla nostra identità di fede. L’islam non vuole cancellare le radici cristiane in occidente”. Non proprio un idem sentire con le chiese siriane o irachene. Irenismo più che pacifismo; cosa che poco c’entra con il cristianesimo, come disse il cardinale Giacomo Biffi, quasi trent’anni fa, quando avvertì che “gli ideali di pace e fraternità sono valori cristiani indiscutibili e vincolanti, ma tali non possono essere ritenuti il pacifismo e la teoria della non violenza che finiscono troppo spesso per risolversi in una resa sociale alla prevaricazione e in un abbandono dei piccoli e dei deboli”.

 

[**Video_box_2**]Eppure, se da una parte il politicamente corretto domina, dall’altra si assiste a una rivoluzione gergale che non teme di fomentare la polemica. Il Papa, poco dopo eletto al Soglio di Pietro, aveva invitato i cristiania non essere ipocriti, a non usare “un linguaggio socialmente educato”. Aveva domandato – prima di tutto ai vescovi – di farsi portavoce della “verità del Vangelo con la stessa trasparenza dei bambini”. La chiamano anche parresia, la capacità di parlare in modo franco. Senza tante mediazioni, finezze lessicali, ricercatezza nei termini da adoperare. Senza troppi edulcoranti a rendere dolci concetti in realtà rudi. E il miglior interprete del nuovo corso è monsignor Nunzio Galantino, che con le sue uscite ha nonostante tutto creato qualche malessere nella stessa Conferenza episcopale e pure nelle stanze della Segreteria di stato vaticana, che di polemiche con l’altra sponda del Tevere ne farebbe volentieri a meno. Prima, di ritorno dalla missione tra i profughi in Giordania, ha accusato la classe politica di avere – in relazione all’immigrazione – un atteggiamento degno di “piazzisti da quattro soldi che pur di prendere voti, di raccattare voti, dicono cose straordinariamente insulse”. Un paio di giorni dopo, rettifica a parte, sempre Galantino accusava su Famiglia Cristiana il governo di non fare nulla per i migranti, di essere “totalmente assente”, attirandosi le ire di ministri, viceministri, sottosegretari, segretari di partito, vicesegretari di partito e governatori regionali che fanno anche da vicesegretario al partito. Ma non è finita qui, perché il segretario generale della Cei, nel discorso inviato a Trento nell’ambito della lectio su Alcide De Gasperi, rincarava la dose: la politica che siamo abituati a vedere oggi è “un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi”. Anche in questo caso, le polemiche non hanno tardato ad arrivare: dalle quisquilie da veri piazzisti da quattro soldi sui “vescovi comunisti” alle minacce alquanto patetiche di togliere soldi alle chiese locali. Ma il segretario generale della Conferenza episcopale italiana sa di interpretare bene il pensiero del Papa: “La mitezza che Gesù vuole da noi non ha niente di questa adulazione, con questo modo zuccherato di andare avanti. Niente. La mitezza è semplice; è come quella di un bambino. E un bambino non è ipocrita, perché non è corrotto. Gesù ci dice: ‘Il vostro parlare sia sì, sì! No, no!’”. Un invito valido a ogni latitudine.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.