Uno dei “Guardiani del tempo” di Manfred Kielnhofer a Venezia. La Biennale Arte 2015 è aperta fino al 22 novembre

Il regno delle due Venezie

Maurizio Crippa
Mi piace pensare come tratterei la città. L’idea di un disegno, che è quello che manca. Venezia è davvero uno specchio dell’Italia. Nessuno al mondo ha così tanto, ma altrove il poco che hanno frutta, qui no.

“La regola è che nulla a Venezia esiste come altrove” (Fernand Braudel)

 

Mi piace pensare come tratterei la città. L’idea di un disegno, che è quello che manca. Venezia è davvero uno specchio dell’Italia. Nessuno al mondo ha così tanto, ma altrove il poco che hanno frutta, qui no. Abbiamo sempre pensato che bastasse essere come siamo, che la concorrenza di quelli che hanno meno ma fanno di più non sarebbe mai arrivata. Quando ho aperto il mio studio a Porto Marghera non c’era nemmeno internet. Come fai?”. Prendete un veneziano come Luca Nichetto, che è partito dalla sua città-mondo e ha scelto di lavorare nel mondo-città. Non ha ancora quarant’anni, è uno dei designer più quotati nel mondo, espone a New York e a Toronto, lavora a Tokyo, è stato un protagonista al Salone del Mobile di Milano. Dieci anni fa a Porto Marghera ha aperto lo studio Nichetto & Partners, design industriale. Adesso la sua factory ha due sedi, quella di Marghera e una a Stoccolma, dove ora vive. Si sente veneziano ma non museale: “Va bene ripulire, ma bisogna anche ricostruire. Alla politica suppliscono altre cose, come la Biennale: è importante perché porta non ‘i turisti’, ma persone che capiscono Venezia, e magari ci ‘inquinano bene’ con la loro contemporaneità”. Rifiuta l’aut-aut tra Disneyland e l’affondamento. Ma ci vuole visione: “Prendi Murano. Attorno all’eccellenza del vetro a Stoccolma o Chicago costruirebbero un universo, da noi fanno i cavallini per i turisti e poi magari si vende il vetro cinese. E’ un approccio provinciale e anche snob”. Come se ne esce? Innanzitutto pensando che Venezia non è solo le isole, c’è altro che può rinascere. “Il Porto di Marghera non ha nulla da invidiare al porto di Rotterdam, ma andate a vedere che cosa hanno creato là. Trecento anni fa Venezia era forse la città più avveniristica del mondo, è stata cambiata la natura, a Venezia. Perché le scale mobili in legno di Rem Koolhaas al Fondego dei Tedeschi dovrebbero essere uno sfregio alla città?”. Il caso del Fondego dei Tedeschi è noto, e dopo lungo contenzioso il gruppo Benetton riuscirà a realizzarne il recupero-trasformazione in un centro del lusso. Progetto affidato all’archistar Rem Koolhaas, direttore della Biennale architettura. L’idea di “ristabilire lo storico legame veneziano tra cultura e commercio” non è eretica. Ma ci fu nel 2013 un’alzata di scudi (poi superata) dell’intellighenzia non solo veneziana. Salvatore Settis scrisse che “c’è una nuova moda tra i potenti: profanare Venezia. In barba alle leggi e asservendo le istituzioni”.

 

“Se dite ‘come è triste Venezia’, si vede che non avete mai visto Porto Marghera”, è la battuta più bella di tutta la vita di Dario Fo. Conviene partire dalla terraferma. Perché quando si guarda questa “città che tutti al mondo vorrebbero governare e tutte le élite del mondo vogliono abitare”, come dice il politologo Paolo Feltrin, veneto di terraferma, bisogna ricordarsi che la Venezia lagunare e le isole fanno in tutto 80 mila abitanti, gli altri 180 mila ce li mette Mestre. E Felice Casson, che forse prenderà più voti in laguna, dice “sposteremo a Mestre e al Forte Marghera parte della Fenice e della Biennale”. E Luigi Brugnaro, l’imprenditore candidato per Forza Italia, il patron del basket Reyer, è figlio di un sindacalista della Cisl che lavorava al petrolchimico. Veneziano di terra. A Mestre il petrolchimico è la medaglia sul petto di Casson, per la sua inchiesta sulla “fabbrica dei veleni” negli anni 90. “Si sente il candidato di Renzi? No, io sono il candidato dei veneziani”. E’ stata la sua risposta secca. Se fosse rimasto a Roma forse adesso se ne andrebbe con Pippo Civati. Fra i suoi ultimi lasciti in Senato c’è il concetto di danno ambientale “irreversibile” inserito nella legge sui reati ambientali. L’autore delle inchieste su Gladio e sull’elettrosmog è il castigamatti che una parte di Venezia attende per mettersi la coscienza a posto. Paolo Flores d’Arcais su MicroMega ha scritto che a Venezia “vittoria della democrazia significa l’elezione di Felice Casson al primo turno… dopo un quarto di secolo di spadroneggiare bipartisan promotore mallevadore della melma di corruzione chiamata Mose”. Casson ha vinto le primarie contro il Pd, perché il Pd le primarie le perde sempre. Dalla sua ha parte dell’élite della sinistra disgustata del centro storico, il rigurgito dell’antipolitica, la rassegnazione di Renzi che ha fatto buon viso. Il vecchio ceto politico di Massimo Cacciari, nel partito e fuori, ce l’avrà contro. “Spero che Cacciari non mi appoggi”, ha detto lui; “se non passa al primo turno al secondo perde”, aveva profetizzato il filosofo.

 

Dopo dieci mesi di commissariamento, il nuovo inquilino di Ca’ Farsetti avrà davanti a sé l’affascinante eterna ipotesi di salvare Venezia provando a farne qualcosa di nuovo, o di conservarla come un prezioso scrigno di biodiversità a chilometro zero. Ma soprattutto avrà da tappare un buco di bilancio da 50 milioni di euro. Tutto frutto delle ruberie? No. Quando arrivò il commissario Vittorio Zappalorto, e doveva affrontare il deficit finanziario, disse che c’era da ripulire un’Amministrazione troppo grassa. Ora se ne va dicendo: Venezia è una città diversa dalle altre, con problemi differenti, ha bisogno di un quadro legislativo e fiscale particolari. Venezia è diversa. Il buco del bilancio lo hanno fatto il patto di stabilità (sforato) e il taglio del rifinanziamento della Legge speciale (2014), nonché la crisi del Casinò che era il bancomat di un welfare generoso e oramai impossibile. La nuova legge speciale per Venezia è di là da venire. Il progetto più avanzato presentato a Roma porta la firma di Felice Casson. L’ex magistrato potrebbe ritrovarsi contro un pezzo del Pd. Un segno di debolezza è che abbia ripescato come capolista della sua lista civica Nicola Pellicani, il giornalista della Nuova Venezia, creatura politica di Massimo Cacciari, che si era candidato contro di lui alle primarie. Quattro candidati della lista civica si sono ritirati, “a malincuore”. “Che le élite votino la sinistra più radicale fa parte dello stilema, è una costante delle città-mondo, New York come Parigi o Berlino”, dice Feltrin. “Ma Brugnaro può diventare il Pizzarotti di turno”. Brugnaro ha fatto una campagna ricca e massiccia, qualità e risanamento. Non proprio i sogni per il futuro che forse i veneziani si aspettevano, ma in città tutti dicono che se Casson non ce la farà al primo turno (era dato per scontato mesi fa), al secondo potrebbe finire con una sorpresa.

 

Flussi elettorali a parte, è più interessante dire che a sfidarsi ci sono due ritratti di città. Due idee di città. “La città” è un libro che Massimo Cacciari ha scritto ai tempi in cui terminava il suo ultimo mandato da sindaco. Il successo del “sistema Cacciari” era consistito in buona parte nella capacità di tirarsi dietro la borghesia veneziana, non solo il ceto politico di sinistra. Ma è stato molto tempo fa. Oggi i professionisti e le élite culturali, visto anche il rio destino di Giorgio Orsoni, finito con gli schiavettoni alla sua prima missione politica, se ne stanno volentieri sott’acqua. C’è la città che Giuliano da Empoli, nel suo saggio renzista “La prova del potere” chiama “la prevalenza del gondoliere”. “L’epicentro della crisi italiana è Venezia. La città più bella del mondo e di tutte la più sconsolata… Qui il turismo è il contrario della rivoluzione. Rendita pura”. Gli piace citare il manifesto dei futuristi “Contro Venezia passatista”: “Noi ripudiamo l’antica Venezia estenuata e sfatta da voluttà secolari, che noi pure amammo e possedemmo in un gran sogno nostalgico. Ripudiamo la Venezia dei forestieri, mercato di antiquari falsificatori, calamità dello snobismo e dell’imbecillità universali… Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini, e innalziamo fino al cielo l’imponente geometria dei ponti metallici e degli opifici chiomati di fumo, per abolire le curve cascanti delle vecchie architetture”. Non c’è bisogno di arrivare a tanto – anche perché qualcosa di quel fuoco purificatore è bruciato davvero, nei decenni passati. Basterebbe tener presente che il sistema pubblico non ha fatto molto per far uscire il gondoliere dalla sua rendita. C’era una volta una rete economica di botteghe e artigiani che non c’è più. Con lei se n’è andata una micro sociologia urbana che altre città-mondo, come Parigi o Barcellona, hanno provato a preservare. Che cosa fa un veneziano d’isola, se non ha un’attività turistica? Affitta la casa, e se ne va in terraferma. L’ultima rivoluzione “a prezzo della devastazione”, come ama dire Cesare De Michelis, storico editore di Marsilio, l’ha fatta il conte Cini con Vittorio Volpi, nel secolo scorso. De Michelis è un esponente della cultura riformista veneta. Dall’altra parte c’è l’intellighenzia rossa ortodossa che ha sempre preferito un certo conservatorismo, economico e ambientale. Il problema è anche che il moderno, in laguna, spesso s’è presentato male. Chi non ha voluto il mostruoso Palais Lumière di sessanta piani di Pierre Cardin a Porto Marghera non aveva tutti i torti, basta guardare le immagini dei rendering. Ma aveva torto chi non lo voleva a prescindere, e preferisce l’immobilismo. A prezzo della devastazione. Scrive Da Empoli: “La tragica alternativa tra gondolieri e futuristi che ha impantanato non solo Venezia, ma l’Italia intera, non è la sola possibile. Se vogliamo tornare a dire qualcosa al mondo, non dobbiamo per forza travestirci da pastorelli o da astronauti. Esiste una terza via. E a Venezia ci sono arrivati per primi”.

 

Venezia l’ha fatto, di restare città-mondo. Oggi non c’è metropoli, né Londra né New York, che abbia in contemporanea, oltre la Biennale, la quantità di mostre eccellenti che ha Venezia. E la stessa densità di residenti e/o viaggiatori di cultura. “Venezia non ha mai vissuto un momento di splendore e attrattività come quello attuale negli ultimi decenni”, calcola Feltrin. Venti milioni di turisti all’anno, e chi prende il vaporetto una sorta di extra charge lo paga già, Disneyland a parte. Diffidare dei luoghi comuni: “I veneziani si lamentano? E’ il loro Dna. Vogliono il repulisti? La corruzione c’è perché i soldi girano”. Basta poi ricordarsi, come dice Luca Nichetto, che “a New York vedi nelle gallerie più importanti gli stessi artisti che hai visto due anni prima alla Biennale: ma poi lì diventano Wall Street, diventano il business del mercato dell’arte”. Una svolta è stata il secondo mandato alla presidenza della Biennale di Paolo Baratta. Parli con i veneziani di cultura e ne sussurrano il nome come di una divinità lagunare. In politica si guarda bene di entrare, anche se nessuno osa dire che non sia un uomo influente. Ma oggi la Biennale è l’unica istituzione culturale al mondo che organizza eventi di portata globale in tre campi diversi, arte, cinema e architettura, e ha trasformato Venezia nella “piattaforma mondiale del contemporaneo”.

 

L’altra città è la città riluttante a darsi una dimensione contemporanea. “Se Venezia muore” è un recente interessante saggio di Salvatore Settis. Anche lui affronta l’eterno problema. L’esito è ribaltato di segno, come l’immagine dei palazzi nei canali: “Venezia può morire se perde la memoria… Fragile, antica, unica per il suo rapporto con l’ambiente, Venezia si svuota di abitanti, e intanto è bersaglio di innumerevoli progetti, che per ‘salvarla dall’isolamento’ ne uccidono la diversità e la appiattiscono sulla monocultura di una ‘modernità’ standardizzata, riducendola a merce”. Settis, che certi rumors di laguna danno come possibile assessore alla Cultura, vincesse Casson. Un paladino colto, attrezzato, di un’idea conservativa della città. Che inevitabilmente fa rima con il destino di un turismo pervasivo. “Venezia capitale dell’immateriale” è stato uno slogan, buono o sbagliato, ma non gli ha fatto seguito una politica. Qualche settimana fa Newsweek ha dedicato un reportage a Venezia. Un po’ veritiero – il crollo demografico, i costi abitativi, il turismo giornaliero che non rende, perché in 25 anni i turisti che dormono in città sono calati di due terzi (dormono a Mestre, strano?), niente cinema nella città del cinema – e un po’ il ritratto consueto di come il mondo vede Venezia e l’Italia, e come le vediamo anche noi. Lo scandalo del Mose, l’alternativa secca tra Disneyland e andare lentamente a fondo. “The merchants are killing Venice” è un po’ come dire che Londra la rovina la City. Newsweek voterebbe Casson.

 

[**Video_box_2**]Secondo giro di vaporetto. Si riparte dalla terraferma. Bisogna ricordarsi che a Mestre ci sono stati quattro referendum per staccarsi da Venezia, persi tutti, ma il quinto è ancora in itinere. Perché una volta il collante municipale erano i soldi che Venezia pompava, e un legame affettivo dei veneziani che si erano “interrati” in cerca di lavoro. Ora quella generazione non c’è più, sparita nel passato come i quattrini pubblici. Venezia è una città demograficamente vecchia e molto politicizzata. Mestre assomiglia al resto d’Italia. C’è molto da pensare, su questa strana città.

 

La città nuova è ciò che sta intorno. Nichetto adesso vive a 18 minuti dal centro di Stoccolma: “Se ci fossero treni che collegano in 20 minuti Treviso e Padova a Venezia anche di notte, non sarebbero tre città più vive? E se la frattura tra Mestre e Venezia, a una cert’ora non ti sposti più, fosse cucita come hanno ricucito i docks a Londra?”. Se insomma Venezia non fosse solo Venezia, ma anche il suo guscio moderno intorno, con potenzialità enormi?

 

Idee per collegare la terraferma alla laguna Brugnaro ne ha, anche se di questi tempi, in cui grande opera fa rima con corruzione sicura, non le ha tirate fuori. Quand’era in Confindustria, aveva avuto un’idea originale, forse infattibile, per togliere le grandi navi dalla Giudecca, facendole passare dal canale di Malamocco. Aveva anche pensato di trasformare il Ponte della libertà, sulla direzione per la terraferma, in un ponte-centro commerciale, di farne un nuovo ponte di Rialto. Chissà se in questa campagna elettorale ha fatto sognare abbastanza. Chissà se Casson ha cancellato quell’idea di essere solo un “uomo del no”. Non sono parti diverse di una città, dice Feltrin, sono continenti diversi: “Ma il valore di Venezia è inestimabile. Se vai ad Agordo, alla Luxottica, i manifesti in inglese dicono ‘Near Venice’, non ‘in Veneto’”. Sì, però a questi luoghi, dice Nichetto, serve “un cambio di destinazione d’uso, se si vuole un futuro non solo museale”. Ma lui non vota, vive a Stoccolma.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"