Rosario Crocetta, ex sindaco di Gela e parlamentare europeo per il Pd, dall’ottobre 2012 presidente della regione siciliana

Crocetta per tutti

Salvo Toscano
Domani il voto. Anche in altre regioni s’avanza il modello Sicilia. Cambi di casacca e avanspettacolo: la dissoluzione della politica.

Che il circo fosse arrivato in città lo si cominciò a capire già alla prima conferenza stampa. Era il 30 novembre del 2012 e Rosario Crocetta battezzava la sua giunta della rivoluzione a Palazzo d’Orleans, da cui gli ultimi due inquilini, Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, erano stati sfrattati per accuse di mafia. L’ex sindaco di Gela, icona dell’antimafia politica, si presentava quel giorno assiso tra le due superstar del neonato governo regionale, Franco Battiato e Antonino Zichichi. Tra le battute in vernacolo del cantautore e i monologhi simpaticamente prolissi dello scienziato (che si rammaricava di aver bidonato Lord Alderdice e il suo meeting sull’ambiente in programma quel giorno a Londra), la conferenza stampa si tramutò presto in show, preludio dello spettacolo surreale in cui da lì a poco sarebbe piombata la Sicilia. Eterno laboratorio e precursore di tendenze nazionali, il siculo scenario politico ancora una volta anticipava i tempi. E consumata la dissoluzione del ventennio berlusconiano e con esso della stagione dei partiti post ideologici, l’Isola entrava mani e piedi nell’era post politica. Quella della dissoluzione della politica stessa, verso la quale altre regioni, viste le premesse di questa strampalata campagna elettorale, si apprestano a seguirla con le elezioni di domani.

 

Tra gli appelli a non votare gli impresentabili della propria stessa coalizione, vedi alla voce Campania, e i candidati scippati a vicenda dai separati in casa della stessa famiglia politica, come nella tragicomica taranta del centrodestra pugliese, le italiche regioni, istituzioni sempre più consumate dall’usura del tempo, si accodano alla Sicilia di Crocetta per entrare nell’èra del caos. Quella in cui storie politiche, tradizioni e identità si annullano in un indistinto gioco da tavola fondato sul più spregiudicato trasformismo. Un copione che in Sicilia si è già consumato con un protagonista improbabile e contraddittorio, il comunista antimafioso approdato al potere con la benedizione di quegli inguaribili rivoluzionari dell’Udc di Pierferdy Casini e della Confindustria, contro la volontà del “suo” Pd, costretto a subirlo perché indebolito dalle sue infinite faide interne. Eppure, per quanto strampalate fossero le premesse, l’era di Rosario Crocetta ha superato ogni immaginazione. Consegnando oggi la Sicilia, due anni e mezzo dopo la sua elezione, a un quotidiano teatro dell’assurdo, con la bellezza di tre governi diversi, trentaquattro assessori e una settantina di cambi di casacca all’Assemblea regionale, dove uno su due dei novanta deputati (così si chiamano in forza di quell’autonomia in nome della quale si sono consumati sprechi da neurodeliri) aderisce a un gruppo diverso da quello in cui era stato eletto.

 

Votato da una minoranza e premiato dalla spaccatura di un centrodestra che a Palermo prima che altrove entrava in agonia, Crocetta è stato il primo governatore di sinistra eletto nel tradizionale granaio berlusconiano. Dopo le meste uscite di scena di Cuffaro e Lombardo, i siciliani cercavano un presidente della regione. Si sono ritrovati uno showman.

 

La discontinuità dalle precedenti giunte è stata un mantra dei primi mesi del crocettismo. Mesi in cui un esercito di big e peones cuffariani e lombardiani s’accasava comodamente all’ombra della rivoluzione pasticciata dell’ex sindaco di Gela. A partire dai due presidenti-ombra, centro di gravità permanente del cerchio magico del crocettismo, ossia il senatore Beppe Lumia, gran visir del professionismo antimafia doc nonché regista del discusso patto politico tra il Pd e lo stesso Raffaele Lombardo, e Patrizia Monterosso, bionda zarina della burocrazia regionale, promossa da Lombardo a segretario generale della presidenza, prima laureata in Filosofia ad accedere a cotanta poltrona, e dominus incontrastato del Palazzo. Già condannata in primo grado dalla Corte dei conti a risarcire un danno erariale da un milione e 300 mila euro, la Monterosso (che è entrata nelle stanze dei bottoni senza far parte della burocrazia regionale, in una amministrazione con 1.700 dirigenti) è rimasta salda al timone, difesa a spada tratta dall’alfiere della legalità Crocetta, garantista un tanto al chilo quando le disavventure giudiziarie toccano i suoi sodali.

 

Su queste basi si è costruito un caotico blocco di potere, che ha attratto a iosa pezzi di risulta del vecchio centrodestra, scatenando un trasformismo che per mole non ha precedenti. Sono persino nati un paio di partiti con la dichiarata mission di fungere d’anticamera per l’ingresso in famiglia dei cambiacasacca. Tra i registi dell’operazione il saggio e democristianissimo Totò Cardinale, già potente ministro delle Telecomunicazioni in quota Mastella negli anni di Prodi, oggi ascoltato consigliere del governatore rivoluzionario.

 

Mentre la grande accozzaglia post politica prendeva corpo attraverso i partiti taxi, le giunte si sgretolavano nella loro friabile inconsistenza. Con uscite di scena traumatiche, come quella dell’assessore all’Energia, il magistrato Nicolò Marino, messo da canto dopo uno scontro durissimo su munnizza e discariche. Se ne andò sparando a zero sulla rivoluzione farlocca, raccontando di “giunte colabrodo in cui entrava chiunque” e definendo l’antimafia di Crocetta “una finzione”. Ancora più grottesca la cacciata di Mariarita Sgarlata, assessore al Territorio, denunciata ai pm dallo stesso Crocetta sulla base di un dossier che insinuava dubbi sulla regolarità della piscina di una sua casa al mare. Vicenda su cui i magistrati ben presto archiviarono tutto, ma che permise al governatore di piazzare in giunta al posto della archeologa dimissionaria un giovane consigliere comunale, funzionale alla campagna elettorale in corso in un paio di paesi in provincia di Siracusa. Teatro, si dice a queste latitudini. Che andava in scena mentre gli indicatori economici della Sicilia colavano a picco e la desertificazione industriale procedeva indomita. La gente mi ama e applaude alla rivoluzione, assicurava intanto il governatore. Piroettando qua e là su tutto. Dal Muos di Niscemi, l’impianto militare americano della discordia (bloccato al momento dalla magistratura), su cui il governo regionale ha assunto 50 sfumature di posizioni diverse, alle trivelle, alle quali la giunta Crocetta stendeva un rosso tappeto di benvenuto dopo aver sposato in campagna elettorale la causa ambientalista. Passando per i mirabolanti e inverosimili annunci su tutto, dai fantomatici Trinacria Bond alla trasformazione della partecipata Azienda siciliana trasporti in una compagnia aerea. A corredo, un coté di anatemi e guerriglie continue tra il governatore e il suo partito, in cui le dinamiche nazionali tra maggioranza e minoranza Pd entravano solo di striscio e il non dichiarato oggetto del contendere, defunta in Sicilia la politica, albergava piuttosto nell’esigenza di una più equa spartizione del sottogoverno tra capicorrente.

 

Balletti su balletti. Come quello del rapporto di Crocetta con Renzi. Cordiale antipatia prima, matrimonio di interesse dopo, quando c’era da mettere una disperata pezza sui conti boccheggianti della regione, cambiando tre ragionieri generali in un mese e mezzo nel pieno dell’emergenza (e uno di loro apprese della sostituzione da un giornale on line mentre incontrava dei precari, evidentemente meno precari di lui).

 

Il crollo è stato verticale. Lento e inesorabile come la frana che nell’indifferenza generale per dieci anni è venuta giù dalle parti di Caltavuturo, Madonie, fino a causare il cedimento dei piloni del viadotto Himera che ha spezzato in due l’autostrada Palermo-Catania, spina dorsale dell’isola. Danni per qualche decina di milioni, un disastro per un’economia già boccheggiante e in recessione, roba che altrove avrebbero mandato i marines il giorno stesso. Per la Sicilia invece ci sono voluti 40 giorni solo per mettersi d’accordo sul fatto che ci fosse un’emergenza in atto. E quel giorno, l’annuncio della decisione del Consiglio dei ministri è stata salutata dallo spellarsi di mani per gli applausi dei siculi renziani e alfaniani. Altro che autonomia.

 

Crollo lento fu. Che è coinciso con il crollo di certa antimafia e della sua consumata retorica come strumento di potere. Le faide interne alle squadre e agli squadroni iscritti al campionato nazionale dell’antimafia del potere e degli affari sono ormai talmente rancide che pochi ci cascano ancora in Sicilia. E Crocetta in questo è forse il più sgamato di tutti. Visto anche che, lui regnante, il mito della legalità s’è infranto da quel dì su un muro di decisioni della magistratura – soprattutto amministrativa – che puntualmente dà torto al governatore quasi su tutto, dalle delibere sulla formazione alle rimozioni di dirigenti. Tra le toghe che hanno dato un dispiacere a Crocetta e ai suoi anche quelle della Corte dei conti che lo hanno chiamato alla sbarra per le assunzioni in una delle tante partecipate regionali (le chiuderemo, ne resteranno otto, anzi due, anzi chissà, ha giurato e spergiurato nel corso dei mesi il governatore e tutte là ancora stanno coi loro settemila dipendenti) insieme al suo presidente Antonio Ingroia, l’ex pm che voleva farsi premier e che dovette farsi bastare alla fine una poltroncina di sottogoverno. Di certo il barbuto ex magistrato caro a Crozza è la più nota tra le figurine dell’antimafia di cui s’è circondato il governatore, che sin dalla campagna elettorale si fregiò del sostegno di Lucia Borsellino, figlia di Paolo e assessore alla Salute inciampata in varie defaillance. Ma il collocamento antimafioso ha permesso l’accesso ai palazzi della regione di altri nomi più o meno noti, fino alla spettacolare conferenza stampa con i testimoni di giustizia assunti in base alla nuova normativa, che si sono presentati a Palazzo d’Orleans incappucciati accanto al governatore.

 

[**Video_box_2**]Anche alla tv la stella del presidente è tramontata, dopo i fasti da protagonista dei primi mesi, mattatore nella gilettiana arena, Crocetta è finito a recitare da caratterista nei talk-show, un ferribotte qualsiasi da mettere in mezzo quando c’è da rinverdire lo stereotipo del siciliano approssimativo. D’altronde, pochi in tv sanno incasinarsi la vita come lui, confondendo milioni con miliardi, mesi con anni, lucciole con lanterne. Memorabile resta l’espressione basita della Gruber quando il governatore tentò di spiegarle in diretta con la sua consueta chiarezza quanto prendesse di stipendio.

 

E così s’è arrivati all’oggi, con la Sicilia buttanissima che sta come d’autunno sugli alberi le foglie, come le sue province, commissariate da due anni dopo che l’Assemblea regionale le cancellò prima ancora del Parlamento nazionale, salvo poi lasciare incompiuta la riforma. E’ la Sicilia prigioniera di un dibattito delirante in cui la concretezza non entra neanche per sbaglio. Vuole così la dura legge della post politica, quella stessa tendenza che in una regione inguaiata tanto quanto l’Isola come la Campania ha fatto sì che per l’intera campagna elettorale si parlasse di impresentabili e no, per dire, di Terra dei fuochi o Scampia. Proprio come nella Sicilia crocettiana, dove associazioni datoriali, sindacati e sindaci (guidati in Sicilia da quel Leoluca Orlando che il governatore liquidò con una certa eleganza come “un forforoso che indossa lo stesso vestito da 20 anni”) disperatamente reclamano un confronto su cose concrete a un presidente più concentrato sulle passerelle in procura per depositare questa o quella denuncia bomba. Le passeggiate al Palazzo di giustizia sono state il leitmotiv della prima fase del crocettismo. Denunce subito seguite dalla spettacolarizzazione di una conferenza stampa con pose da sceriffo. La prassi alla lunga ha indispettito gli stessi pm palermitani, che avrebbero chiesto uno sforzo di continenza al presidente. D’altro canto per un politico che riassunse i meriti della sua esperienza di sindaco con l’originale ricostruzione “ho fatto arrestare 820 mafiosi” c’è poco da stupirsi.

 

E’ questa la nuova èra della regione Sicilia, precipitata in un amen dal potere all’avanspettacolo, squattrinata, screditata e annichilita nelle sue stanze dei bottoni dall’ombra della mafia prima e dall’impostura dell’antimafia poi. L’èra in cui gruppuscoli e cordate di avventurieri non hanno più da incomodarsi ad avvolgere in un’apparenza di politica le proprie scorribande. E’ la stagione post politica, che vede la luce nelle più stanche, bistrattate e malconce istituzioni della Repubblica, quelle regioni di cui la Sicilia di Crocetta rappresenta un ideale avamposto. E da dopodomani sotto a chi tocca.

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