il caso

La tentata aggressione al giudice di Napoli conferma l'idea diffusa della pena come vendetta

Ermes Antonucci

La giudice Girardi condanna a pene pesanti gli imputati del processo sull'eplosione della fabbrica abusiva di fuochi d'artificio a Ercolano ma viene aggredita dai famigliari delle vittime. Manes: "Oggi l'idea di pena utile e proporzionata è impopolare"

Costringe tutti a riflettere sulla concezione della “pena” da parte dei cittadini quanto accaduto ieri al tribunale di Napoli, dove i parenti e gli amici delle tre vittime dell’esplosione di un anno fa a Ercolano di una fabbrica abusiva di fuochi di artificio hanno tentato di aggredire il giudice dopo la lettura della sentenza emessa nei confronti dei titolari dell’azienda. L’aggressione è stata evitata solo dall’intervento delle forze dell’ordine. La procura aveva chiesto per i due datori di lavoro la condanna a 20 anni, il massimo della pena considerata la riduzione dovuta al rito abbreviato. Richiesta accolta quasi integralmente: i due sono stati condannati a 17 anni e sei mesi. Troppo poco per i parenti delle vittime. “Anche con i 20 anni di carcere sarebbe successo quello che è successo”, ha detto la legale della famiglia di due delle vittime. Un’ammissione che impone di interrogarsi sull’idea di pena diffusa nella società. 

 

La vicenda di Ercolano ha avuto un ampio risalto mediatico. Nell’esplosione della fabbrica persero la vita tre giovani, le gemelle Sara e Aurora Esposito di 26 anni e il 18enne Samuel Tafciu. Non solo, nel corso delle indagini è emerso che i giovani venivano impiegati in nero per il confezionamento dei fuochi d’artificio e sottopagati: il ragazzo riceveva 250 euro alla settimana, le ragazze 150. 
I due titolari dell’azienda alla fine sono stati imputati per triplice omicidio volontario con dolo eventuale, caporalato, detenzione e fabbricazione di esplosivi, violazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Sono stati condannati a 17 anni e sei mesi di reclusione. Un terzo imputato è stato condannato a quattro anni per aver fornito la polvere pirica. Dopo la lettura della sentenza da parte della giudice Federica Girardi, alcuni famigliari e amici delle vittime hanno ribaltato sedie e scrivanie, e hanno provato a raggiungere lo scranno del tribunale. Sono stati fermati dal tempestivo intervento di polizia e carabinieri. La giudice e la pm si sono chiuse per precauzione in camera di consiglio. “Diciassette anni di carcere per tre morti non sono giustizia”, hanno urlato i parenti delle vittime. 

 

Una “reazione scomposta ma prevedibile”, l’ha definita l’avvocata Nicoletta Verlezza, che nel processo ha assistito la famiglia delle due gemelle morte nell’esplosione. “Anche con i venti anni di carcere – ha sottolineato – sarebbe successo quello che è successo”. Insomma, anche se fosse stata accolta la richiesta dei pm di condannare i due datori di lavoro alla pena massima, probabilmente si sarebbe assistito allo stesso pandemonio in tribunale, con la tentata aggressione alla giudice. 

 

Scene inaccettabili in un paese civile, ma non inedite. Nel 2023 il giudice di Pescara, Gianluca Sarandrea, assolse in primo grado 25 imputati su 30 nel processo sulla strage di Rigopiano. Alcuni famigliari delle vittime tentarono di aggredirlo fisicamente e il giudice venne salvato soltanto dall’intervento dei poliziotti. “Senza entrare nel merito delle vicende, mi sembra ormai sempre più diffusa una concezione della giustizia che deve rispondere soltanto alle aspettative delle vittime. Però le vittime non vogliono giustizia, vogliono condanna. Anche perché, come diceva Hobbes, la condanna assomiglia alla giustizia molto più di un’assoluzione”, dice al Foglio Vittorio Manes, professore ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna. 

 

“Forse solo il taglione potrebbe avere effetti placativi per la spinta emotiva che gravissime vicende, come queste, generano sulle persone coinvolte. Ma la pena non può essere concepita in una logica di retribuzione secca, perché nessuna pena è in grado di compensare l’incommensurabile dolore prodotto sulle vittime dei reati”, aggiunge Manes. “Per questo motivo nel corso dei secoli ci si è congedati dal concetto della pena ‘giusta’, in favore invece di una pena ‘utile’, cioè che serva a difendere la società, aprendosi alla finalità rieducativa della pena e al principio di proporzionalità. E’ chiaro che questa idea oggi è fortemente messa in discussione e molto impopolare”.

 

Tutto ciò anche a causa dell’influenza sempre maggiore del processo mediatico: “La dimensione mediatica dà voce alle vittime e ai pubblici ministeri, crea un orizzonte d’attesa rispetto al quale qualsiasi disallineamento da parte del giudice viene visto come una prova di denegata giustizia – riflette il giurista – Questo tipo di trend sottrae la giustizia dalle mani del giudice, che di fronte a un determinato orizzonte d’attesa non è più libero di decidere, ma deve dire da che parte stare: se dalla parte delle vittime, condannando, oppure se dalla parte degli imputati, assolvendoli. Imputati che però la vox populi considera già colpevoli. E infatti ogni volta che il giudice assolve o si allontana dalle richieste del pm viene visto come un giudice corrotto”. 

 

“Queste aspettative di condanna non consentono neanche di ricondurre il processo nei binari di razionalità che vorrebbero una pena proporzionata e orientata a una finalità rieducativa. Questo non significa essere buonisti”, evidenzia Manes. “Bisognerebbe spiegare che la rieducazione non è buonismo, ma uno strumento per abbattere i tassi di recidiva, cioè il ritorno al crimine di coloro che vengono condannati. In altri termini, un modo per difendere la società”, conclude.

 

Di più su questi argomenti:
  • Ermes Antonucci
  • Classe 1991, abruzzese d’origine e romano d’adozione. E’ giornalista di cronaca giudiziaria e studioso della magistratura. Ha scritto "I dannati della gogna" (Liberilibri, 2021) e "La repubblica giudiziaria" (Marsilio, 2023). Su Twitter è @ErmesAntonucci. Per segnalazioni: [email protected]