
Foto ANSA
il racconto
L'estate in cella. Storie dal carcere di Rebibbia
Un impasto di acqua e farina per difendersi dalle blatte, water a vista e impiccagioni sventate. Visita ai detenuti dell’istituto penitenziario romano
Alcune storie le scopriamo solo quando finiscono. Dall’inizio dell’anno si contano 45 suicidi in carcere, dice l’ultimo rapporto di Antigone. Ma la morte è solo l’apice di una spirale drammatica che ogni giorno si vive negli istituti penitenziari italiani, e che si comprende bene solo entrandoci di persona. Lo ha fatto un’ampia delegazione di Nessuno tocchi Caino e della Camera Penale di Tivoli, passeggiando fra i bracci del carcere Rebibbia Nuovo Complesso: un’intera giornata di luglio dietro le sbarre, condensata in un report indirizzato al dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap), che il Foglio è in grado di raccontare.
Rebibbia è un colosso penitenziario da 1.566 detenuti, circa 500 in più rispetto ai posti regolamentari. A quasi mille di loro mancano meno di 4 anni per ritornare in piena libertà, ma oggi il sovraffollamento medio dell’istituto è pari al 146 per cento, superiore al dato nazionale del 134 per cento e ancora di più a quello europeo del 90. Gli agenti presenti nel giorno della visita erano 525, mentre gli educatori previsti in pianta organica solamente 16. Per garantire la gestione del carcere i turni sono massacranti, racconta l'associazione, e spesso non c’è abbastanza personale per scortare i detenuti in udienza, ma anche per le visite mediche esterne. Non sono di supporto neanche le nuove assunzioni della polizia penitenziaria, dato che gli organici sono per lo più formati da donne che non possono da sole fare vigilanza in sezione, soprattutto di notte.
“Qui stamo ‘na crema”, ironizzano i detenuti del piano terra. In questa sezione dovrebbero rimanere pochi giorni, in attesa di andare altrove. In realtà, il sovraffollamento li costringe a restarci anche per mesi. In una cella ci sono sei detenuti arrangiati in qualche letto a castello e brande singole. Non c’è l’acqua calda e le docce sono tutte esterne. Le blatte nel bagno sono così tante che un detenuto ha deciso di risolvere da sé il problema otturando tutti i buchi della cornice della porta con un cemento “fai da te”, realizzato impastando zucchero, farina, colla e acqua. Un suo compagno di cella racconta di aver saltato per tre volte la visita esterna per le emorroidi. Per avere un po’ di sollievo le medicine deve acquistarle a sue spese.
In quella cella un detenuto ha dei segni sulle labbra. Qualche mese fa si è cucito la bocca per la disperazione. Oggi però una comunità sarebbe pronta ad accoglierlo. Così dovrebbe essere anche per i detenuti con problemi di tossicodipendenza (circa il 40 per cento del totale del penitenziario), che in alcuni casi in base al nuovo Piano carceri dovrebbero beneficiare di una procedura più veloce per trasferirsi in una struttura socio–sanitaria. Per ora, anche quando il posto si trova, gli inghippi burocratici prolungano l’attesa a dismisura. Lo sa bene un detenuto del braccio G6, dedicato ai detenuti ad alto rischio. Dieci mesi fa ha tentato di impiccarsi, ma un appuntato è riuscito a impedirglielo. Per entrare in comunità gli serve una certificazione del Servizio per le tossicodipendenze, ma tutto è ancora bloccato perché la dottoressa che lo aveva in cura non lavora più lì.
Al primo piano, alta sicurezza, la corrente elettrica funziona a intermittenza. Per andare in bagno si usa un water a vista, collocato nella parte di muro di fronte al letto e accanto alla porta di ingresso, senza alcun divisorio. Chiunque ci si sieda è ben visibile a tutti coloro che passano lungo il corridoio, dove tra l’altro ci sono anche le docce. La privacy dietro le sbarre non esiste, specialmente in una sezione dove i detenuti sono chiusi per più di 20 ore al giorno e le poche ore di socialità si passano nelle celle altrui, non essendoci una sala dedicata.
In tutto ci sono quattro persone considerate ad alto rischio suicidiario. In una cella più lontana ce n’è uno. Fa parte di quel 31 per cento di detenuti stranieri che popolano l’istituto. La sua storia si legge nelle ferite che ha sul corpo e sulla gola, alcune delle quali fanno sospettare un’infezione. Qualche giorno prima della visita ha cercato la morte in cella, ma è stato salvato dagli altri detenuti. Applicazione da manuale di quanto detto qualche settimana fa dal ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Paradossalmente il sovraffollamento è una forma di controllo: alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella”.
Nella stessa sezione c’è anche Francis Kaufmann, accusato del duplice omicidio della compagna e della figlia, trovate morte a giugno a Villa Pamphili. Si lamenta di non essere potuto ancora andare all’aria aperta, di faticare a dormire per le continue urla che provengono dalle altre celle e di avere difficoltà a farsi capire perché parla solo inglese.
L’ultima cella del reparto esala un odore nauseabondo. La stanza è buia, le lenzuola sono sporche e la macchia di fumo sullo stipite della porta lascia intendere un incendio recente. Il detenuto che la occupa ha problemi psichiatrici e spesso non mangia per quasi una settimana intera. Attende di essere trasferito in Gambia, ma la sua condizione di salute gli impedisce di volare su un aereo di linea. Servirebbe, anche qui, una certificazione da parte di un perito del ministero dell’Interno. Nel frattempo, rifiuta ogni terapia che lo stabilizzi, e il caos quotidiano prosegue senza sosta.
Più delle strutture vetuste, della sporcizia e del desiderio di evadere uccidendosi, a unire ogni storia è la solitudine. In ogni reparto, nei detenuti morde il bisogno di parlare della loro situazione e dei loro problemi. In prima accoglienza ad ascoltarli c’è un solo agente, su cui si riversano tutte le frustrazioni della popolazione detenuta. Quello di Roma è solo un piccolo tassello di un vergognoso e drammatico racconto collettivo. Quello di una emergenza ormai tristemente incardinata nella quotidianità. In cui le voci di oltre 62 mila persone rimbombano da ogni penitenziario italiano, finendo sistematicamente ignorate. Meriterebbero di essere ascoltate, prima che sia troppo tardi.