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Le idi di maggio dell'Antimafia
L’antimafia dei Giusti commemora le stragi con fatwa, ditini alzati e distinguo. Mentre si moltiplicano le voci allineate e i silenzi imposti. E Fiammetta Borsellino chiede: “Scusate, e la verità?”
Accadde che qualche crepa si allargò nelle mura candide dell’Alto Santuario, la Fondazione Falcone, retta dalla Grande Sorella Maria. Persino l’inginocchiatoio sociale sul quale tutte le più importanti cariche dello stato avevano reso omaggio al ricordo del giudice assassinato, ma più ancora alla solennità barocca di un’antimafia “buona”, quella della verità rivelata, scricchiolò. Venne il giorno in cui si decise di portare indietro di dieci minuti le lancette della memoria in modo da rendere più comodo il ricordo tra i “giusti”, gli allineati, tutti assiepati sotto le fronde dell’Albero Falcone, prima che arrivassero i guastatori, giovani ossessionati nientedimeno che dalla verità: insomma il minuto di silenzio si celebrò alle 17.48 anziché alle 17.58, l’ora esatta della strage. Per spegnere le insulse polemiche – che volete che siano dieci minuti più o dieci minuti meno – si immolò persino l’ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso che disse che era colpa sua perché si era confuso con tutta quella gente, tutti quei ricordi, tutto quel sole e aveva bruciato i tempi con la lettura dell’elenco delle vittime. Insomma Maria Falcone non c’entrava niente e neanche col pensiero si poteva andare a un’ipotesi minimamente diversa. Nel frattempo i social media manager dell’Alto Santuario smanettavano con i loro polpastrelli benedetti per bannare Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, dall’account Facebook della Fondazione perché il suo post “proveniva da un profilo con pochi follower, per questa ragione è apparso non attendibile”.
Fu così che venne rivelato un nuovo postulato della dottrina delle Scienze Perfette dell’Antimafia: il valore di un’opinione pesa in funzione del carico di consenso che c’è dietro, non del suo contenuto. Che Salvatore Borsellino fosse un’anima controversa del “fronte alternativo”, Agende Rosse e compagnia bella, e che in passato avesse sposato idee dissonanti rispetto ai figli di Paolo e al loro avvocato, era noto a tutti, tranne forse ai social media manager della Fondazione che lo avevano scambiato per un troll tipo TurboSalvo42. Ma restava il mistero di cosa avesse mai scritto su quella santissima pagina di Facebook. Dopo approfondita e ponderata indagine si scoprì che trattavasi di una disonorante critica verso la Fondazione che aveva detto che Pietro Grasso aveva fatto parte del pool antimafia: “Spero non siano queste le informazioni che date al Museo del Presente”, era stato il suo commento. Violentissimo e al limite dell’indecenza, com’era evidente. Insomma ci fu gran lavoro quel giorno nei reparti tecnologici dell’Alto Santuario, tanto da non aver trovato il tempo di aggiornare il sito ufficiale della Fondazione in cui l’ultima “news” risale al 27 ottobre 2023. Accadde che le commemorazioni si identificarono con le “idi di maggio”, non solo per la perenne continua ricorrente lite tra parenti dell’uno e dell’altro giudice, ma per la minaccia incombente di disordini spesso causati da una sbagliata gestione dell’ordine pubblico. Due anni fa, studenti, sindacalisti, attivisti sociali furono manganellati violentemente dalle forze dell’ordine (molte forze, poco ordine) perché non graditi al cospetto della Santa Antimafia. Erano armati solo di uno striscione “Non siete Stato voi, ma siete stati voi” e questo bastò per farli passare per pericolosi criminali.
Accadde che sbirciando attraverso la crepa del muro dell’Alto Santuario realizzammo la cruciale importanza della crepa stessa e di quelle mura. Se mai si fosse ipotizzata un’unità nel fronte antimafia era nell’Alto Santuario che essa trovava un suo punto di crisi. Quando, nel 2015, decise di portare i resti di Giovanni Falcone dal cimitero di Sant’Orsola alla chiesa di San Domenico dove riposano i “siciliani illustri”, la sorella Maria compì un atto esplicito di divisione. Dalla famiglia Morvillo, separando il fratello dall’amata moglie Francesca, e dai “siciliani qualunque” giustificandosi con la seguente dichiarazione: “La traslazione delle spoglie di mio fratello Giovanni è un’azione coerente con gli obiettivi della Fondazione, cioè privilegiare la dimensione pubblica del magistrato”. Stesso metodo dei social media manager di cui sopra: la certificazione di attendibilità veniva rilasciata direttamente dall’Alto Santuario, come se Giovanni Falcone per avere il timbro di “illustre” avesse dovuto riposare da solo, lontano da sua moglie.
Accadde comunque che alzammo le spalle: che ne potevamo sapere noi “siciliani qualunque”? Che dubbi avremmo mai potuto sollevare dinanzi a una Fondazione che si è fatta museo con tre sedi (Palermo, Bressanone, Roma), che ha aperto un “American corner” in collaborazione con l’ambasciata degli Stati Uniti, che ha inaugurato una sede a Malta? Chi avrebbe fatto questa figura da barbone?
Accadde che la fatwa di Maria Falcone colpì anche un mahatma dell’antimafia fondamentalista. Dopo le polemiche per i fatidici dieci minuti dell’Albero Falcone, Leoluca Orlando, che si era unito al coro dei contestatori, venne additato come “uno dei peggiori nemici istituzionali di Giovanni Falcone” ricordando implicitamente a tutti i “non illustri” che la lotta a Cosa nostra riguarda solo chi ha la Compostela rilasciata dall’Alto Santuario. E omettendo che la storia di Falcone e Orlando – complessa, dolorosa – va letta tutta, con attenzione, e che la ragione politica (estremamente soggettiva per definizione) può essere detestabile ma non può essere stravolta. Non ce n’era bisogno, ma anche quella volta avemmo conferma che la presunzione con cui una parte dell’Antimafia si era incoronata “ufficiale” faceva il paio con una certa benevolenza nei confronti del potere dominante. Infatti fu con Orlando fuori dai giochi che ci si consentì di bacchettarlo come se fosse un moccioso rompicoglioni: “A lui, e solo a lui, chiediamo almeno per una volta – con rispetto ma con fermezza – un silenzio totale. Un silenzio dignitoso. Un silenzio dovuto. La memoria non si difende con l’applausometro”. Scritto dalla Fondazione che difendeva gli applausi dai fischi spostando le lancette dell’orologio di una strage.
Accadde che a fronte di questo ambaradan di accuse, polemiche, distinguo, ditini alzati e teste chine Fiammetta Borsellino chiese: “Scusate, e la verità?”. Poi, appena udibile nel vociare delle adunate commemoranti, aggiunse: “Non c’è altro modo di onorare questi uomini, servitori dello Stato, se non con la ricerca della verità. Purtroppo al paese è mancata l’opportunità di crescere nella luce”. Se la verità è la luce, il suo contrario non è il buio. Ma l’oblio. Perché al buio ci si abitua, l’anima come l’occhio si adatta, magari per mera questione di sopravvivenza. L’oblio è diverso. Segna l’allontanamento del pensiero, dei sentimenti, col conseguente riverbero sugli affetti. Dalle stragi Falcone e Borsellino all’omicidio di Piersanti Mattarella, è stato come se ci trovassimo in un enorme magazzino stracolmo di cose, affollato e disordinato dove si cerca e non si trova. Ma si sa che nulla manca. E la frustrazione nel sapere di essere lì dove le cose ci sono ma giacciono nascoste da altre, è cresciuta col passare del tempo giacché non è solo dal falso che chi cerca la verità deve difendersi. Ma deve vedersela con le altre, contrastanti, verità che stanno lì proprio per fare il loro lavoro di schermo, di paravento, di cortina fumogena o, peggio ancora, di trappola delle buone intenzioni. Per l’eccidio di via D’Amelio, ad esempio, è certificato che il depistaggio ci fu. I finti “pentiti” ebbero tutti nome e cognome. I magistrati e i poliziotti che li crearono, gestirono e difesero, furono tutti prosciolti e, la maggior parte, addirittura promossi. Gli unici colpevoli furono identificati in due defunti: l’ex capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera e l’ex capo della Procura della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra. Per gli altri, un bel liberi tutti.
Accadde che più di una pista nera apparve e svanì, creando illusioni e delusioni equamente ripartite tra le tifoserie giudiziarie. Riguardo alla strage Falcone ci vollero due anni per scrivere l’ennesimo capitolo di indagine che ipotizzava un coinvolgimento del fondatore di “Avanguardia nazionale” Stefano Delle Chiaie. Poi tutti insieme, sostituti procuratori di Caltanissetta e sostituti procuratori nazionali, si convinsero che l’ipotesi non aveva appigli solidi e la lasciarono cadere. Quindi ufficialmente non ci furono esponenti dell’eversione nera a organizzare l’assassinio di Falcone e degli uomini della scorta. Il che non significa che il quadro accertato sinora in sede giudiziaria sia completo in modo da potersi affidare, in un grottesco rito consolatorio, alla considerazione che fu solo mafia. Molti collaboratori di giustizia infatti riferirono della presenza di uomini sconosciuti alle riunioni preparatorie della strage. E sconosciuti in quel contesto significava non mafiosi. Del resto lì, davanti al tritolo, nessuno chiedeva un documento, un codice fiscale: ci stava chi ci stava e più non domandare. Anche per l’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella, avvenuto il 6 gennaio 1980, ci fu una pista nera che apparve e svanì. Falcone ci lavorò sodo e segnò più volte sulle sue agende la parola “Volo”. Era il cognome dell’estremista di destra, incidentalmente anche preside di scuola, Alberto Stefano Volo, che parlava del coinvolgimento del killer nero Giusva Fioravanti nell’agguato al fratello dell’attuale presidente della Repubblica. L’inchiesta si moltiplicò nei secoli dei secoli togliendo di mezzo la pista terroristica e facendo emergere a ondate decennali il ruolo della mafia. L’ultima marea, qualche mese fa, portò a galla due possibili sicari di Cosa nostra (i componenti della Cupola sono stati comunque condannati come mandanti) e la domanda delle domande: fu solo mafia? Una sola certezza: fu un delitto politico-mafioso, con quel che ne consegue.
Accadde che con ricorrenza più o meno quinquennale, generalmente intorno a maggio, il cinema ripropose sullo schermo varie forme di rievocazioni e/o ricostruzioni e/o riletture delle stragi con annessi e connessi. Ci fu di tutto, dall’eroismo del pentito di mafia che decide di vuotare il sacco all’analisi ingegneristica degli attentati, dal caldo delle estati all’Asinara al gelo degli occhi dei trucidi esecutori. Ultimo prodotto fu il film “Giovanni e Francesca – Una storia d’amore e di mafia” di Ricky Tognazzi e Simona Izzo che nel loro repertorio ampio e variegato spaziavano incolpevolmente dalla cronaca nera all’apostrofo rosa. Accadde al contempo che mentre fecero scalpore i dieci minuti di anticipo della commemorazione della strage di Capaci, nessuno si accorse del cruciale passo indietro del Teatro Massimo, sempre in quel 23 maggio che infiniti casini addusse all’Alto Santuario. Il Massimo, una delle fondazioni lirico-sinfoniche più prestigiose d’Italia con una grande tradizione di impegno civile – quattro opere originali sulla lotta alla mafia prodotte negli ultimi anni e una stagione, quella del 2022, interamente dedicata dall’allora sovrintendente Francesco Giambrone al trentennale delle stragi – aveva in programma un concerto delle formazioni giovanili, ragazzi che suonano molto bene e che costano molto poco, intitolato pensate un po’ “In memoria”. All’ultimo momento lo spettacolo fu annullato. Risultato: per la prima volta il più grande teatro d’opera d’Italia rimase fuori dalla celebrazione di una memoria collettiva o meglio scelse di non fare, di non dire, di non esserci: nel giorno del ricordo della strage Falcone, a Palermo mica a Disneyland, nel luogo simbolo del riscatto sociale. Dal momento che nessuno se ne accorse, si diffusero a mezza voce e in modo carbonaro due ipotesi. La prima: la città, che già si ricordava a stento dell’Albero Falcone una volta all’anno, era ormai distratta in modo patologico. La seconda: di quello spettacolo probabilmente non gliene fregava niente a nessuno, primi tra tutti gli organizzatori.
Accadde che i due club “amici di Giovanni” e “Paolo mi disse” si infoltirono di soci. Tutti prevalentemente con un libro in uscita o con una candidatura in pentola o con un armadio stracolmo (il difetto degli scheletri è che non soggiacciono alla regola del cambio stagione). In una terra dominata per anni, oltre che dalla mafia, da un’antimafia pubblicitaria che ragionava per spot e slogan e che riproponeva sempre le illusioni di una resistenza immaginaria, qualcuno avrebbe dovuto azzardarsi a ipotizzare una moratoria delle messe cantate a uso propagandistico. I club dei fan servivano solo per migliorare le piattaforme del merchandising. Quello che mancava erano le idee. E i giovani che le idee se le facevano venire, avevano solo le loro gambe sulle quali farle camminare, nonostante altre gambe tendessero sgambetti a ogni passo. Trentatré anni fa a Palermo il movimento dei lenzuoli bianchi nacque da un volantino, altro che social, e funzionò. Forse perché c’era un contesto drammaticamente forte, forse perché i circuiti analogici della coscienza civile non risentivano di certe vacuità della partecipazione digitale: allora per esserci bisognava esserci e basta, niente clic e like. Oggi la rarefazione dell’emergenza mafiosa, che c’è ma non si vede, che trasuda ma non allaga, alimenta gli inganni. Illude che tutto sia passato, che i simboli servano solo a dare una lucidatina all’argenteria della memoria. E che il semplice esercizio del ricordare, una o due volte all’anno, ci assolva dalla nostra disattenzione quotidiana. Accadde che ci dimenticammo a cosa serviva l’arte: a ricordarci non chi siamo, ma chi diventeremo. Questo accadde alle idi di maggio.