
il caso
La sentenza della Consulta sull'abuso d'ufficio conferma i paradossi del governo del panpenalismo
La Corte costituzionale promuove l'abrogazione del reato. Esultano Nordio e Forza Italia, silenti gli alleati: le contraddizioni di una maggioranza che, anziché abrogarli, sta introducendo una media di due reati al mese
Non è incostituzionale abrogare un reato, come l’abuso d’ufficio, che in un anno porta all’apertura di circa 6.000 procedimenti penali che si concludono con soltanto 27 condanne, generando la “paura della firma” tra sindaci e funzionari pubblici. Lo ha stabilito la Corte costituzionale, bocciando le questioni di legittimità costituzionale sollevate da quattordici autorità giurisdizionali. Primo vero successo per il ministro Nordio, che propose la cancellazione del reato con un disegno di legge, poi approvato in Parlamento a luglio. Il Guardasigilli esprime “massima soddisfazione” per la sentenza, esultano gli esponenti di Forza Italia, non partecipano alla festa FdI e Lega. I paradossi di una maggioranza che, anziché abrogarli, sta introducendo una media di due reati al mese.
La Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’abrogazione del reato da quattordici autorità giurisdizionali, tra cui la Corte di cassazione. La Consulta ha stabilito che dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (quella di Merida) “non sia ricavabile né l’obbligo di prevedere il reato di abuso d’ufficio, né il divieto di abrogarlo ove già presente nell’ordinamento nazionale”. Insomma, i giudici costituzionali hanno bocciato in pieno proprio la tesi propagandata per mesi, ormai anni, da alcuni magistrati molto mediatici (in primis Piercamillo Davigo), dalla stessa Associazione nazionale magistrati, dalle opposizioni, da certi quotidiani vicini alle toghe e da alcuni giuristi (in verità, pochi).
“L’abuso d’ufficio è previsto dalla Convenzione Onu di Merida, non si può abolire”, hanno ripetuto in coro per tutto questo tempo i Davigo boys. Pazienza se, andando a leggere il testo della Convenzione del 2003, si scopre che questa obbliga gli stati firmatari soltanto a “esaminare l’adozione” (“shall consider adopting”) del reato di abuso d’ufficio, e non ad “adottare” (“shall adopt”) il reato, espressione utilizzata nella stessa Convenzione per altre fattispecie di reato.
Scoperto l’inghippo, a quel punto i difensori del reato di abuso d’ufficio – tra cui i tribunali che si sono rivolti alla Consulta – hanno sostenuto che comunque fosse contraria alla Convenzione la condotta di uno stato, come l’Italia, che avendo già nel proprio ordinamento il reato in questione avesse deciso di privarsene. Una tesi quantomeno bislacca. “L’idea che da un preteso vincolo sovranazionale potesse generarsi un divieto di regresso, un obbligo di non decriminalizzare, è incompatibile con il necessario carattere aperto delle valutazioni in materia di tutela penale”, sottolinea al Foglio il professor Vittorio Manes, intervenuto mercoledì davanti alla Consulta a sostegno dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio. “Il diritto penale è sempre una risposta parziale, oggetto di riflessioni ponderate e ripensamenti, e non può sussistere l’idea che la risposta penale possa essere una soluzione a senso unico ed eterna. Questo è incompatibile con il pluralismo delle costituzioni democratiche”, aggiunge.
“Vedremo le motivazioni, ma la decisione della Corte è un punto fermo molto importante che ribadisce il valore che la rappresentatività democratica e la legittimazione parlamentare hanno sulle scelte in maniera punitiva, che non possono essere condizionate da obblighi o vincoli di tutela penale, che costituisce sempre l’extrema ratio”, spiega Manes. “Non c’è solo la risposta penale. In materia di abusi della funzione amministrativa si incrociano controlli erariali, responsabilità disciplinari, rimedi civilistici. Lo stato deve essere libero, altrimenti si andrebbe a creare lo scenario di un diritto penale irreversibile che non può mai tornare sui propri passi”.
“Personalmente non condivido la scelta abrogativa”, prosegue il giurista. “Penso che si sia passato da un eccesso all’altro. Ma opinabile o meno che sia, si tratta di una scelta di politica criminale e la Corte costituzionale ha voluto ribadire questo sottile, delicatissimo, ma invalicabile confine: c’è una differenza tra una legge non buona e opinabile, e una legge incostituzionale. In questo spazio si colloca la discrezionalità politica”.
Festeggiano dunque Nordio e la maggioranza, seppur quasi esclusivamente nella sua componente forzista. D’altronde, il governo Meloni più che ad abrogare reati o a depenalizzarli sembra più impegnato a introdurli. Dall’insediamento dell’esecutivo sono stati introdotti oltre sessanta reati e aumenti di pena per un totale di circa 500 anni di carcere in più nel nostro ordinamento. Una sbornia giustizialista che in molti casi appare incompatibile con alcuni princìpi fondamentali della Costituzione, come proporzionalità, ragionevolezza e tassatività. Tanto che diverse misure sono già state impugnate di fronte alla Corte costituzionale. Che potrebbe adottare decisioni non altrettanto positive per il governo.
