l'iniziativa delle toghe
La carica delle procure contro l'abrogazione dell'abuso d'ufficio
Da sempre bastonati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per la violazione di diritti fondamentali, i magistrati italiani si scoprono improvvisamente sensibili al diritto internazionale e chiedono che la norma che ha cancellato l'abuso d'ufficio sia dichiarata incostituzionale perché in contrasto con la Convenzione di Merida
Da Reggio Emilia a Catania, da Firenze a Potenza, fino ad arrivare a Busto Arsizio. Le procure d’Italia stanno insorgendo contro l’abrogazione dell’abuso d’ufficio decisa dal governo Meloni, chiedendo ai tribunali di sollevare questione di legittimità costituzionale di fronte alla Consulta. Per i pm, infatti, l’abrogazione del reato sarebbe incostituzionale, in primis per il mancato rispetto dei vincoli derivanti dal diritto internazionale e, in particolare, dalla Convenzione Onu di Merida contro la corruzione del 2003. Il tribunale fiorentino ha già deciso di spedire la questione alla Corte costituzionale, ma la “rivolta” delle procure contro la riforma voluta da Nordio non accenna a placarsi. E fa abbastanza sorridere – con tutto il rispetto – leggere le richieste di rimessione formulate dalle procure. Abituati a essere bastonati periodicamente dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la violazione di alcuni diritti fondamentali dei cittadini (soprattutto in materia di intercettazioni, sequestri e misure preventive), i magistrati italiani si scoprono ora improvvisamente sensibili agli obblighi derivanti dal diritto internazionale, tanto da vestire le panni di esperti.
La procura di Reggio Emilia, la prima a chiedere di sollevare la questione di legittimità costituzionale, ad esempio, non ha dubbi: “L’abrogazione tout court dell’abuso d’ufficio si pone in contrasto con l’articolo 117 Cost. e con gli obblighi assunti dallo stato italiano sia in ambito comunitario europeo sia in ambito internazionale”. Per sostenerlo, la procura riporta ampi stralci della Convenzione di Merida, fornendo la sua interpretazione del testo che riguarda l’abuso d’ufficio: “Se è vero che l’obbligo assunto sul piano internazionale è quello di ‘esaminare l’adozione’ (‘shall consider adopting’) e non quello di ‘adottare’ (‘shall adopt’), invece utilizzato nella stessa Convenzione per differenti e specifiche ipotesi corruttive, è pur vero che, senza dubbio, è in evidente contrasto con gli obblighi internazionali assunti, la condotta di uno stato che avendo già nel proprio corpus normativo l’ipotesi delittuosa in disamina ed essendo dunque quell’obbligo per esso tamquam non esset, decida invece di privarsene”.
Insomma, come sostenuto anche dalla procura di Catania, “dal combinato disposto” degli articoli della Convenzione “discende un obbligo di mantenimento (rectius non abrogazione) di quelle misure già presenti nella legislazione italiana e dirette a tutelare la trasparenza della PA”. In altre parole, ratificando la Convenzione di Merida, che non prevede l’obbligo di introdurre il reato di abuso d’ufficio, l’Italia avrebbe comunque preso l’impegno a mantenere i reati già preesistenti, tra cui proprio l’abuso d’ufficio.
Sarà la Corte costituzionale a valutare l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale e poi, eventualmente, a valutarne la fondatezza. Col risultato che, nel caso in cui la norma venisse dichiarata incostituzionale, verrebbe riportato in vita un reato abrogato.
Per il momento non si può non ironizzare sull’improvvisa scoperta del diritto internazionale da parte delle procure, così come evidenziare la durezza delle parole usate dal tribunale di Firenze: “La scelta legislativa di abrogazione del delitto di cui all’art. 323 c.p. – si legge nell’ordinanza – non pare riconducibile a un legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore, ma si prospetta come arbitraria”. Per i giudici fiorentini, infatti, “non si è tenuto di conto che le ragioni poste a sostegno della spinta riformatrice (la c.d. ‘paura della firma’ o ‘burocrazia difensiva’) erano di fatto venute meno (sopravvivendo, forse, solo sul piano, del tutto irrilevante, soggettivo e psicologico di singoli funzionari) in ragione delle recenti riforme e del successivo (e ormai consolidato) orientamento giurisprudenziale di legittimità e dei principi enunciati dalla Corte costituzionale”. Ma cos’è questa se non una valutazione discrezionale da parte dei giudici? Un po’ poco per spingersi a definire addirittura “arbitraria”, e quindi incostituzionale, l’azione del legislatore.