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L'intervento
Chi studia il diritto penitenziario non può fare a meno di Ristretti Orizzonti. Un appello al Dap
Non convincono le motivazioni a favore delle “celle chiuse” quale modalità di custodia dei detenuti di alta sicurezza, da tempo coinvolti dalla testata in attività aventi come scopo la rieducazione. Ma le persone non sono “reati che camminano”: serve un modo più costituzionalmente orientato per garantire la sicurezza negli istituti penitenziari
Chi studia il diritto penitenziario non può fare a meno di Ristretti Orizzonti. E crediamo che le duemila visite giornaliere al suo sito internet siano testimonianza della rilevanza per una cerchia più ampia di persone, a tal punto che Ristretti, straordinario strumento di informazione e di apprendimento, appare un bene culturale immateriale da tutelare. Ad esempio, il Notiziario quotidiano dal carcere è un appuntamento che ciascuno attende e dal quale trae beneficio per le attività che svolge. Il tutto senza considerare che Ristretti coinvolge da tempo un cospicuo numero di detenuti in attività aventi come scopo la rieducazione, costituzionalmente imposta. Siamo quindi preoccupati delle conseguenze che si potranno verificare sul lavoro di Ristretti Orizzonti a seguito della nota del 27 febbraio 2025 del direttore generale della Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap, avente ad oggetto le modalità di custodia dei detenuti di alta sicurezza. Da un lato, l’art. 13 della Costituzione esige che i “modi” della detenzione siano “previsti dalla legge”.
Siamo consapevoli che già si è fatto ricorso a note, linee guida, circolari e simili per intervenire sulle modalità della detenzione, non di meno è il momento di adottare una posizione più netta, anche perché la giurisprudenza costituzionale ha esteso all’esecuzione della pena una serie di principi fino a qualche anno addietro ritenuti validi solo per la fase della cognizione (su tutti, un corollario proprio della legalità, il divieto di retroattività di modifiche in peius: sentenza 32/2020, seguita da decisioni conformi). Esistono spazi di attuazione da riconoscere alla fonte regolamento, ma una questione così importante, come quella delle modalità di custodia dei detenuti (nel nostro caso, di As), deve trovare nella fonte legislativa la sua prima e insostituibile disciplina. Dall’altro lato, nel merito, ci domandiamo quanto possa essere costituzionalmente legittima la scelta delle “celle chiuse” quale modalità di custodia dei detenuti di As. I riferimenti corrono a diverse disposizioni della Costituzione. Da quelle che assegnano alla Repubblica compiti inequivocabili – quali garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2) e rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3) – a quelle che disegnano il volto costituzionale del sistema penale, come la responsabilità penale personale, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e il finalismo rieducativo (art. 27).
Non convincono le motivazioni a favore delle “celle chiuse”, laddove si dice che solo in questo modo si rende possibile la individualizzazione del trattamento. Allo stesso modo, non pare opportuno fare discendere conseguenze così gravose sulla generalità dei detenuti in As. Laddove si sono verificate criticità è giusto intervenire, non lo è farlo in modo indistinto, a tutto detrimento proprio della individualizzazione. Chiediamo pertanto che il Dap intervenga in modo rapido e solerte per rimediare a questa scelta sbagliata e fuori dal perimetro costituzionale. Le persone non sono “reati che camminano”, il diverso trattamento e il differente regime di custodia devono sempre basarsi su valutazioni attuali e individualizzate. Siamo convinti che questo sia il modo più costituzionalmente orientato per garantire insieme l’ordine e la sicurezza entro gli istituti penitenziari e il pieno sviluppo della persona umana.
Davide Galliani, Università degli Studi di Milano (estensore); Roberto Bartoli, Università degli Studi di Firenze; Francesco Palazzo, Università degli Studi di Firenze; Roberto Cornelli, Università degli Studi di Milano; Renzo Orlandi, Università degli Studi di Bologna; Giovanni Fiandaca, Università degli Studi di Palermo; Emilio Dolcini, Università degli Studi di Milano; Marco Pelissero, Università degli Studi di Torino; Luciano Eusebi, Università Cattolica di Milano; Angela Della Bella, Università degli Studi di Milano; Stefano Simonetta, Università degli Studi di Milano; Emilio Santoro, Università degli Studi di Firenze; Stefano Canestrari, Università degli Studi di Bologna; Patrizio Gonnella, Università degli Studi Roma Tre; Giandomenico Dodaro, Università degli Studi di Milano-Bicocca; Lina Caraceni, Università degli Studi di Macerata; Franco Della Casa, Università degli Studi di Genova; Laura Cesaris, Università degli Studi di Pavia; Andrea Pugiotto, Università degli Studi di Ferrara; Carlo Fiorio, Università degli Studi di Perugia; Silvia Buzzelli, Università degli Studi di Milano-Bicocca; Pasquale Bronzo, Università La Sapienza di Roma; Marco Ruotolo, Università degli Studi di Roma Tre; Gian Luigi Gatta, Università degli Studi di Milano; Costantino Visconti, Università degli Studi di Palermo; Gian Paolo Demuro, Università degli Studi di Sassari; Claudia Pecorella, Università degli Studi di Milano-Bicocca; Mauro Palma, Università degli Studi di Roma Tre; Adolfo Ceretti, Università degli Studi di Milano-Bicocca
