Il racconto
La coraggiosa autobiografia intellettuale di Cassese invita a superare i confini disciplinari
Il suo libro evita il compiacimento e l’autoglorificazione e descrive attraverso la propria vicenda un pezzo di storia recente e meno recente mantenendo sempre equilibrio e distanza
Sabino Cassese, uno dei maggiori giuristi italiani viventi, ha preso il coraggio a due mani pubblicando una vera “autobiografia intellettuale” (Varcare le frontiere, Mondadori). Parlare di sé, ricostruire la propria vicenda biografica è operazione delicata, piena di insidie: occorre evitare il compiacimento e l’autoglorificazione, e raccontare attraverso la propria vicenda un pezzo di storia recente e meno recente mantenendo equilibrio e distanza. Cassese riesce a farlo molto bene in queste pagine, regalandoci uno spaccato di storia repubblicana e insieme un’equilibrata riflessione sul contributo da lui offerto ai tanti ambiti professionali nei quali si è trovato coinvolto: riflette sui temi di studio scelti e le fasi principali della sua attività di studioso, sulle letture (fatte e consigliate), i maestri, i compagni di viaggio, il metodo di insegnamento, i numerosi incarichi pubblici.
Il titolo scelto non avrebbe potuto essere più azzeccato. Cassese ha abitato quotidianamente le frontiere: disciplinari, nazionali, professionali, facendo fruttuosamente dialogare la scienza giuridica con la storia e la politologia, coltivando rapporti stretti con colleghi francesi, inglesi, americani, tedeschi, costruendo ponti tra discipline diverse, sempre animato da un’appassionata cultura umanistica. E’ il miglior erede della grande tradizione italiana dei giuristi intellettuali, da Arturo Carlo Jemolo a Stefano Rodotà, studiosi ascoltati non solo nell’ambito del loro settore accademico ma dall’intera società in virtù della loro costante presenza nella vita pubblica. E di impegni pubblici al di fuori dell’accademia è costellata la vita di Cassese, dalla scuola dell’Eni di Enrico Mattei (e Giorgio Ruffolo), agli incarichi nel settore bancario, all’esperienza di ministro, a quella di membro della Corte costituzionale, passando per un’assidua e intensa collaborazione con giornali e settimanali nazionali sui più diversi temi dell’attualità: incarichi e impegni che non hanno peraltro sottratto energie alla sua attività accademica, di insegnamento e ricerca, l’hanno anzi alimentata con linfa nuova.
Il suo libro è anche un duro atto di accusa nei confronti dei suoi colleghi giuristi, “gravemente disattenti nei confronti dei grandi problemi del mondo contemporaneo”, prigionieri dell’idea dell’unicità del metodo giuridico, accademici isolati che “coltivano un sapere frammentato”, incapaci di rendersi conto che i “sistemi complessi non sono riducibili alle parti che li compongono”, lanciati senza adeguata preparazione in campi sconosciuti, adusi a “filosofeggiare sul diritto più che studiarlo”. Più in generale, è un atto di accusa nei confronti del mondo universitario italiano, “lontano dal vasto mondo delle iniziative culturali”, popolato da donne e uomini intrappolati nei burocratismi, incapaci di rinnovarsi. Attirati dall’“apparenza piuttosto che dall’essenza delle cose”, essi “assistono senza capire, all’impegno esterno dei migliori propri docenti”, quando invece le università potrebbero “mobilitarne le forze per ridiventare esse stesse centri di cultura e di promozione di cultura aperti all’esterno”. Gli accademici giuristi, scrive Cassese, dovrebbero piuttosto cambiare strada impadronendosi degli strumenti della comparazione, superando i confini disciplinari e collaborando con altre competenze. Se c’è una possibilità di sviluppare saperi originali e nuovi modi di guardare le cose antiche questa risiede in un coraggio intellettuale che attualmente manca agli accademici italiani.
Cassese non risparmia giudizi taglienti anche nei confronti della Corte costituzionale, un organo dove ha servito per nove anni rinunciando, con malcelata sofferenza, a “esprimersi sui problemi contemporanei del suo paese”. Un organismo avvolto da una segretezza che spesso confina con l’oscurità, del quale Cassese ha già messo a nudo i meccanismi grazie a un ricchissimo diario di lavoro pubblicato qualche anno fa dal Mulino. Ebbene, la Corte emerge dalla sua ricostruzione come un’istituzione poco coraggiosa, spesso adusa ad adagiarsi sulle inammissibilità, ovvero sulle troppe decisioni di non decidere (“una domanda frequente tra i giudici è ‘come ne usciamo?’ anziché ‘come decidiamo?’”). Anche in questo caso successi e fallimenti, raccontati con immediatezza. Così come ricostruisce con grande onestà la sua esperienza di ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi (1993-94), descrivendo puntualmente le resistenze incontrate dalla sua azione riformatrice. Tutti da gustare, infine, gli ultimi capitoli, pieni di lucide, a tratti impietose ma mai pessimistiche riflessioni sull’Italia di oggi e di domani.