La procura di Milano e il processo postumo a Berlusconi

Ermes Antonucci

I pm milanesi hanno impugnato in Cassazione la sentenza Ruby Ter che assolse il Cav. dall'accusa di corruzione in atti giudiziari

La procura di Milano ha deciso di impugnare direttamente in Cassazione, saltando la Corte d’appello, la sentenza con cui il 15 febbraio scorso sono stati assolti tutti i ventinove imputati del processo Ruby Ter, a partire da Silvio Berlusconi. Ovviamente quest’ultimo, morto il 12 giugno, non fa più parte del procedimento, ma per i pm milanesi – l’aggiunto Tiziana Siciliano e il sostituto Luca Gaglio – ormai processare Karima El Mahroug e le altre giovani ex ospiti delle serate di Arcore è una questione di principio. 

 

Il processo di primo grado era durato la bellezza di sei anni. L’allora leader di Forza Italia era accusato di aver pagato, a partire dal novembre 2011 e fino al 2015, circa 10 milioni di euro alle ospiti di Arcore per essere reticenti o mentire durante i processi Ruby 1 (in cui Berlusconi è stato assolto) e Ruby bis sulle serate di villa San Martino. Per Berlusconi i pm avevano chiesto una condanna a sei anni di reclusione. Un castello di accuse demolito dal collegio giudicante presieduto da Marco Tremolada (lo stesso che ha smontato il processo Eni-Nigeria). 

 

L’imputato numero uno, Berlusconi, non c’è più. Ma riuscire a far condannare le ragazze per corruzione in atti giudiziari costituirebbe una gigantesca rivincita per la procura milanese nei confronti del defunto Cavaliere. Anche perché al centro della sentenza di assoluzione vi è un errore madornale compiuto proprio dai pm: aver ascoltato le ragazze nei primi due processi Ruby come testimoni semplici anziché come indagate assistite dagli avvocati e con tutte le garanzie del caso, anche se già c’erano “plurimi indizi” di reità nei loro confronti.  

 

Il ricorso dei pm in Cassazione verte proprio su questo aspetto giuridico. Nel ricorso gli inquirenti sostengono che, secondo la giurisprudenza, le ragazze erano già testimoni “dal 23 novembre 2011”, cioè da quando era stata emessa l’ordinanza di ammissione delle prove, tra cui quelle testimoniali, nel processo Ruby 1. Erano “pubblici ufficiali”, quindi, già da mesi prima che si sedessero sul banco dei testimoni. Per la procura anche l’accordo corruttivo tra Berlusconi e loro, affinché mentissero nei processi, c’era già stato.

 

Non è vero, dunque, secondo i pm, ciò che sostiene il tribunale, cioè che “in ragione della dichiarata inutilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali” delle ragazze, che dovevano essere indagate e sentite come testimoni assistite da legali, queste non hanno mai “assunto la qualifica di pubblico ufficiale”. Lo erano già prima, secondo i pm, ed erano anche già state corrotte. Quindi i giudici, sempre a detta della procura, potevano assolvere “al più” le giovani dalle false testimonianze per una “causa di esclusione della colpevolezza”, cioè quelle garanzie non concesse quando hanno deposto, ma dovevano condannarle per corruzione in atti giudiziari.

 

Un’interpretazione già bocciata dai giudici nelle motivazioni della sentenza di primo grado: “L’omissione di garanzia ha irrimediabilmente pregiudicato l’operatività di fattispecie di diritto penale sostanziale strettamente connesse con il diritto processuale”. E, si badi, non si tratta di un mero cavillo giuridico: “E’ appena il caso di evidenziare – scrivono i giudici – che qui non si discute di un mero sofisma, di una rigidità processuale, di una sottigliezza tecnica priva di contenuti. Tutelare il diritto al silenzio significa assicurare l’effettività della garanzia del nemo tenetur se detegere (“Nessuno può essere obbligato a fare dichiarazioni contrarie al proprio interesse”, ndr), di un principio che innerva l’essenza stessa del sistema processuale e affonda le radici direttamente nel diritto di difesa, costituzionalmente presidiato e pietra d’angolo dell’ordinamento giuridico”. Insomma, più che la reputazione (postuma) di Berlusconi, in gioco c’è il funzionamento del nostro stato di diritto. 

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